Londra: prime impressioni.

Arrivai a Londra dentro un paio di pantaloncini, color caki, della Quecha e una t-shirt nera a manica corta, dove si stagliava un fine gioco di parole, in versione anglosassone, in un sobrio verde fosforescente: “I’M GOoD”. Era la mezzanotte italiana, le 11:00 ora locale, quando atterrai nella città più cool del vecchio continente vestito da “Bobby” in borghese. Il tempo di riprendermi dallo shock per non aver sentito applausi all’atterraggio, di farmi sfilare da tutta la fila e poi fui finalmente fuori, a godermi la fine pioggia del benvenuto.

Scesi i quaranta gradini metallici della scaletta dell’aereo con l’ansia da valletta sanremese, cercando di bilanciarmi fra la voglia di toccare il suolo e la paura di scivolare. Prendere la valigia per ultimo ti regala sempre degli attimi di brivido, carichi di un nuovo timore: un mese intero con questa “mise” e ti vedi già in mano uno stock di mutande e magliette bianche, comprate a saldo da Primark, sulla via dello Squatter. Superata la paura mi infilai ciecamente dentro una navetta, che solo molto dopo ho capito essere la navetta per i parcheggi, così cercando di dissimulare il fatto di non avere una macchina da cercare, aspettai paziente la fine del tour, presi un treno e arrivai a Victoria Station verso le 2 del mattino ora britannica. La destinazione era il 34 di Tavistock Place, Bloomsbury, Russel Square o più semplicemente secondo il pragmatismo inglese:WC1H 9RE. Sentite le richieste dei “Cabbie” londinesi, preferii farmi adescare dalle allettanti tariffe di un tunisino improvvisatosi tassista per le Olimpiadi, oltre a rivalutare l’onestà del tassista medio romano. La mia italianità fu il solito lasciapassare, lui aveva lavorato a Napoli per cinque anni, gli parlai di Roma e della toscana, il resto poi lo fece l’improvvisazione e un inglese incerto. Dopo un amabile incontro di opinioni sulle assurde tariffe dei tassisti locali, finimmo a parlare di donne, calcio e Berlusconi, mentre correvamo in senso contrario al mondo a fianco della chiesa di Westminster, del Big Ben, del London Eye e del British Museum, in una notte piovosa da cartolina.

Pagai la modica cifra di 35 pound che divennero 40 per “mancanza” di resto e attraversando la strada vidi le gentili istruzioni del Comune che avverte dove guardare per attraversare con sicurezza, ma non mi fidai e guardai ovunque prima di partire con uno scatto da medaglia verso l’ingresso dell’Albany Hotel.

Mi aggrappai alla maniglia dell’albergo con la disperazione dell’assetato, sebbene fossero altre le mie urgenze, ma non riuscii ad entrare, era tutto chiuso. Suonai. Suonai una seconda volta e una terza, chiamai, risuonai, chiamai, bussai e risuonai. Alla fine una voce burbera venne ad aprirmi, presumendomi sordo mi fece un tre con le dita, mi mise in mano una chiave legata ad una targhetta con inciso un “6” sbiadito e tornò su suoi passi assonnati. Una casa, tappezzata di moquette, stretta e lunga, come ne vidi tante in seguito. Solo che questa era adibita ad albergo, forse con troppe pretese, si sviluppava per lungo, piano per piano, ad ogni piano un bagno, fortunatamente sprovvisto di moquette, tre camere, nessuno spazio in comune e di un bidè nemmeno l’ombra. I proprietari avevano lasciato per sé il piano inferiore, con loro anche un pastore tedesco che evidenziava ogni movimento nell’albergo con un abbaio da Cerbero, lasciando i piani superiori agli ospiti stipati in nove stanzette.

Quello che trovai, aprendo la porta in senso contrario? Un letto, una scrivania, un armadio, un lavello addossato ad un angolo della parete, due rubinetti, uno rosso e uno blu, una tv, un frigo spento e una finestra che si affacciava indiscreta sulle case di fronte, piene di ampi vetri oscurati da pesanti tende polverose e sulla strada attraversata ad intermittenza da gruppetti di giovani barcollanti. Londra è dietro l’angolo, è lontana, sembra una di quelle belle ragazze altezzose che farebbero di tutto per distinguersi. Londra e la sua monarchia scandalosa, la sua moneta, il suo Sistema Imperiale Britannico, isola felice e insegnante anarchica per le sue vecchie colonie, ancora tutta da scoprire.

Edoardo Romagnoli

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