London Apocolympics

La città è piena di addobbi a cinque cerchi, dal Tower Bridge all’ultimo dei negozietti ad Archway, mostrano tutti fieri i simboli che il marketing è riuscito ad inventare, mentre i “souvenir shops” sono invasi da ogni tipo di articolo, dalla penna alla valigia, su cui è stato possibile stampare l’immagine di Wenlock e Mandeville, le due ciclopiche mascotte di questi giochi.

Camden Town, un cielo fermo che minaccia pioggia, nessuno se ne cura, fa da sfondo ad un pomeriggio pigro. Corro seguendo Mike, lui ha il passo svelto, io non sono fluido, vado a sbattere contro migliaia di gomiti, spalle e mani, attaccate a volti umani che sfilano rapidi con passo di giostra. Mike, vercellese di nascita, eritreo d’origini, veniva al liceo con me, due anni avanti, ma dopo il diploma lo persi. Venni a sapere qualche tempo fa che aveva deciso di seguire l’Università a Londra e così appena atterai, cercai di mettermi in contatto con lui. Lo ritrovai, ingrassato, felice e sul punto di partire per la Catalogna da lì a poco, per raggiungere il marito della sorella che si è messo a coltivare della terra, vicino a Barcellona. Ed eccoci lì, sotto questo cielo color piombo, a correre verso un appuntamento di cui avevo capito ben poco.

Corremmo sfilando case uguali, bianche, con i muretti bassi di mattoni, quadrati di cemento e giardino e ampie finestre basse, con le solite pesanti tende dietro le quali si potevano immaginare dei salotti nascosti.

Dopo centinaia di case bianchi, arrivammo davanti ad un portone blu, con attaccato sopra un foglio, solo dopo un’attenta lettura capii essere un’ingiunzione di sfratto, lì su quella soglia, in quel breve tempo fra il suono del campanello e l’apertura della porta, mi tornarono alla mente, come a cascata, pezzi di conversazione persi nella memoria, ma non ebbi il tempo di completare nessun pensiero.

Quando ci aprirono, fui avvolto da un odore che riportai a quello di coperte stantie, salsicce, burro e olio, sulla soglia un ragazzo dai lunghi capelli rossi con un lucente apparecchio in bocca, ci invitava ad entrare. Ci fece strada nell’oscurità della casa. Un corridoio stretto e lungo percorreva il piano terra, la moquette si arrampicava per le scale, su per i piani superiori, si allungava in tutte le stanze, portando con sé un acre odore di polvere. Scendemmo una scaletta di legno senza il corrimano e raggiungemmo un locale davanti alla cucina, la stanza più grande della casa con il solo difetto di avere il soffitto sfondato, retto da una coperta che sembrava uno spinnaker. Feci un giro rapidissimo con gli occhi, di quella porzione di casa. Una porta finestra rotta, riparata alla meglio con un cartone, un mare di sigarette spente, cartine strappate e cenere sul pavimento, vidi anche le salsicce con il loro odore muffoso, abbandonate in una padella sommersa da due dita di olio torbido.

Lì sparsi fra un divano, qualche sedia e una panca in legno, se ne stava un esercito di nove ragazzi dai calzini sporchi e dalle facce sorridenti. Mi presentai, era ufficiale, ero in una casa occupata da squatter, quelli che da noi vengono chiamati, in maniera meno altisonante, occupanti abusivi. Riconobbi che loro, come altri gruppi, avevano una certa tendenza ad assomigliarsi. Non pensavo , ma anche lo squatter, per condizione o volontà, ha una sua divisa, un suo codice apparente di riconoscimento. E allora, pantaloni bucati, maglie logore, scarpe consumate fino all’apertura della punta e tatuaggi a tema.

Cercai un angolo e mi sistemai, come al cinema, immergendomi in una realtà totalmente estranea, di cui non conoscevo i codici, i modi, niente. Sono ragazzi diversi, c’è la figlia della ricca borghesia di South Kensington che non vuole stare a casa per vedere babbo e mamma che fanno festini a base di coca con la Londra bene che scorrazza per casa. C’è un ragazzo lituano che suona la chitarra come un Dio, c’è lo squatter tedesco che sta girando da anni l’Europa, e poi ci sono Ed Greens, un irlandese musulmano e D, un mastodontico ragazzo di colore, dagli occhi piccoli e la voce rotta e potente da megafono.

Tutti con una cosa in comune: la voglia di non tornare a casa.

Mi raccontarono di loro, degli 8 mesi che hanno vissuto in una tenda piazzata in una piazza del centro durante “Occupy”, parlammo di politica fino ad arrivare al New World Order, un tema non trascurabile per chi crede in un “Sistema”, la madre di tutti i complottisti. Capii che gli inglesi sono aiutati nei loro ragionamenti, anche dalla lingua, che non permette articolate costruzioni barocche, di girare intorno alle cose, ma solo di inquadrarle e colpirle in pieno.

Ecco perché quando arrivammo a parlare delle Olimpiadi fui colpito dalla fredda logica che traspirava tra le pieghe calde della rabbia. Feci le tre del mattino, ma quando uscii non pensavo alla lezione che avrei dovuto seguire il giorno dopo. Sul notturno verso casa pensavo solo a quella stretta, sporca e vibrante casa occupata a Camden, dove trovai un’altra Londra, altri Londinesi e nessuna chiamata a cinque cerchi.

Edoardo Romagnoli

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