Gabriele Sandri. La morte di un cittadino per mano di uno sceriffo.

In un mondo che sembra non fermarsi mai, la morte ha ancora il potere di fermare il tempo, di sospenderlo, almeno all’apparenza.

Gli spazi che si aprono di fronte ad un evento luttuoso possono essere riempiti di retorica, slogan o parole pensate più per la pancia che per il cervello di chi ascolta. Oppure? Oppure possono diventare un momento di riflessione collettiva, per capire quello che è successo, perchè si trovi un senso universale, da condividere con gli altri, perchè non rimanga una morte vana.

L’analisi logica, razionale dei fatti è l’unica via percorribile per chi non vuole cadere vittima di una facile retorica, creando un’aurea sacra che si consuma all’interno dei propri confini, lasciando i più orfani di un senso, uno spendibile per la loro esperienza.

L’unico percorso che permette di non credere ad una visione dicotomica e semplicistica che divide il mondo in due, il bianco e il nero, il buono e il cattivo.

Non voglio credere che ci sia qualcosa di sacro nella morte di Gabriele, non voglio credere che si voglia riassumere la vita, di un ragazzo di 26 anni in una sciarpa, che lo si voglia immolare. A cosa poi? Al Dio calcio e alle sue fedi?

L’11 Novembre del 2007 è  stato ucciso un cittadino, l’ennesimo, un nostro coetaneo, un figlio, un fratello, un dj, un amico, un lavoratore, e sì, anche, anche un tifoso.

E allora non devono interessarci i dettagli, le bugie, gli ennesimi quanto goffi tentativi di insabbiamento, le spranghe, i sassi nelle tasche, se dormiva o era sveglio, i passamontagna, gli insulti, le possibili deviazioni del proiettile, se le mani erano giunte o le braccia tese, questo è materiale da tribunale.

Non aggiungono nulla a ciò che tutti han visto e capito fin da subito, su quell’autostrada, che è una delle più trafficate d’Italia, sotto quello che era il giovane sole mattutino di quell’11 Novembre del 2007.

E’ roba da tribunali, l’unico luogo preposto, in cui si deve riuscire nel tentativo di trasformare le ipotesi, le sensazioni, i ricordi in prove, prove che portino ad una sentenza che renda giustizia. Sapendo già che nessuna pena potrà mai curare un’assenza.

Forse la fortuna di Gabriele, rispetto ad altri, è il palcoscenico sul quale si è consumato il suo omicidio, non le mura di un carcere, non una stanzetta di una Questura, dentro stanze piene solo di occhi complici, ma su un’autostrada, esposto agli occhi di testimoni ignari.

Si deve capire, riuscire a comprendere le cause, il perchè un agente della Polizia Stradale si è comportato da sceriffo, scambiando la sua Beretta d’ordinanza per una Smith & Wesson, un’autostrada per un piazzale polveroso da Far West e una macchina carica di ragazzi, per una carovana di banditi da fermare a colpi di pistola.

La morte per omicidio, per quanto tremenda, è un evento umano, possibile, in fondo forse, col tempo e la riflessione, anche comprensibile, magari una insopportabile, ma possibile comprensione .

Ciò che resta incomprensibile è il meccanismo oscurantista che si mette in moto puntuale, in maniera uguale e sistematica, ogni volta che esponenti delle forze dell’ordine, abusando del potere loro concesso, si trasformano da tutori a assassini, tanto in fretta da farsi trovare ancora in divisa.

Edoardo Romagnoli

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