Indicazioni per l’uso: testo scritto a 4 mani. Ringrazio Matteo Monti per la prima parte.
Premessa: non vorrei ricevere critiche sul fatto che io mi stia soffermando così tanto sulla realtà “centro commerciale”. Mi è presa così.
Sarà che durante le feste queste mastodontiche costruzioni di cemento e contratti precari si riempiono come fossero dei formicai.
E io non ho un grande rapporto con le masse, la calca.
Sarà che, comunque, non può essere sottovalutata la portata socio-economica di quanto questi “muovano”: tempo, soldi, consumo, in generale.
Sarà che sono un pò nauseato e quindi ho bisogno di fermarmi, dopo tutto quel trambusto.
Di prendermi un pò di tempo.
Il TEMPO. E’ capitato, come affermavo in qualche estratto passato, di partecipare alla giostra, armarsi di pazienza (indispensabile per la ricerca del parcheggio e per evitare le smanie-da-ressa) e immergersi in quell’apnea fatta di persone, di contatto umano, di “intruppi” spalla a spalla, di attesa per pagare. Ovunque.
Ne sono uscito sempre e solo con una domanda in testa, una voce urlante e bramosa di capire: “come FATE a SPRECARE il vostro TEMPO in un posto così A-TEMPORALE?”.
Passi colui il quale si piega per dovere, per esigenza.
(Anche se poi, dovremmo aprire un capitolo un pò più “macro” e soffermarci sull’equivoco del concetto FAST.
I FAST food, ad esempio: inizialmente concepiti come una concessionaria di servizi rapidi per chi, come i lavoratori da “giacca e cravatta”, necessita-va di non sprecare il proprio tempo e consumare un qualcosa di snack – ergo confezionato – in pochi minuti.
Che poi, pur conservando la natura “snack” del proprio food, siano diventati dei luoghi simbolici di ritrovo, di “cose-da-fare-nel-TEMPO-libero”, rimane un qualcosa di difficilmente concepibile. Almeno per me.)
Ma quando la scelta diventa conscia e l’azione parte da premesse volontarie, non ci sto.
“Padre di famiglia: tu che probabilmente fatichi al solo pensiero di abbandonare il divano, liso dalle tue natiche rese pigre dalla dura settimana lavorativa;
Madre di famiglia: tu che stai con l’elenco delle spese e gestisci questa uscita come neanche le più incallite matriarche dell’800 avrebbero fatto nei peggiori racconti a tinte dark di Dickens;
Figlio/a di famiglia: tu che credi stia andando al luna park e che i due di cui sopra stiano scegliendo volontariamente di torturarsi per un intero un pomeriggio, solo per comprarti delle cose, qualsiasi cosa…;
Nonno/a di famiglia: vabbè… a te non dico nulla;
Insomma, voi, MA COSA VI DICE IL CERVELLO?“
E quando, per PERDERE tempo, per attendere l’orario di un film (che tanto, mai inizierà in modo puntuale) la soluzione proposta dal luogo è quella di andare a “tentare la fortuna” in una delle molteplici sale slot che si stanno diffondendo per Roma (al pari delle sale gioco degli anni ’80), bè… allora oltre che di tempo, si parla anche di economia.
I SOLDI – I centri commerciale sono umani. E come tali, tentano, propongono, invitano, impongono. E’ raro che si riesca a scampare al loro cinismo. Un caffè, un pacchetto di sigarette, un televisore da 72’’… Non ci si salva.
In qualsiasi modo, per qualsiasi cosa, sappiate che uscirà qualcosa dalle vostre tasche.
Se ci si piega, anche solo l’andarci prevede che tu spenda dei soldi. Che tu partecipi alla giostra, dandogli vita e linfa vitale.
Che, si sa, è costituita solo da monete, banconote e strisciate di carte dalla banda magnetica fumante e consumata.
Bene, quale miglior espediente se non quello di creare un immensa sala slot?
Geni. Del male. Malissimo.
I percorsi sono indicati sin dai parcheggi. Frecce enormi che ti fanno camminare, ti indirizzano verso un “mondo” (sui cartelli è indicata la frase geniale “VIENI A SCOPRIRE IL MONDO WINCITY”), ti guidano.
E come neanche voci più autorevoli sulla Bibbia tentavano di svelare un percorso imponendone l’assimilazione, queste frecce ti prendono con forza e ti ci portano di peso.
Il peso non è neanche così un problema, considerato che la strategia di marketing esperienziale dei gestori di questa sala (chiamarla sala è un eufemismo. Suggerirei ‘Distesa’) prevede un sostanziale alleggerimento delle tasche del(deI) malcapitato, a fine della corsa.
Non basta quanto brulicare di vita e di economia (in barba alla crisi e ai redditometri vari) avvenga appena 10 metri sotto il pavimento di questo magico contesto in stile ‘Las Vegas’: lì si è giustificati a sprecare. E lo si fa silenziosamente, con una coscienza imputridita che ti lascia la sensazione di aver comunque salvaguardato la dignità. Ovattati (drogati?).
Una tristezza mista ad illusione che non ti fa parlare, che ti concede un’oasi felice (?) rispetto al caos sottostante.
Un’esperienza mistica. Dura da masticare.
Pensare che noi eravamo andati solo per vedere un film, per cercare di assaporare una cosa che eravamo soliti fare qualche anno fa: cinemino con amico. Pop corn(se prendete le caramelle gommose mettete in preventivo una spesa media di 40€ per due persone) e commenti post-pellicola.
Eravamo in fila per il ritiro dei biglietti, prenotati su internet giusto per evitare di perdere tempo superfluo.
Film: ore 22.
Orario: ore 21.
Cartello sul desk del cinema: “MENTRE ASPETTI, VIENI A SCOPRIRE IL MONDO WINCITY”.
Un rapido scambio di sguardi. Poi la sentenza: “Annamo Edoà?”
04/01/2013
Porta di Roma: terzo piano – Sala Slot.
“Milioni di anni di evoluzione per veder girare delle prugne.” (Maurizio Crozza)
“Gioco d’azzardo. È il contrario del gioco, ed è assurdo che abbia lo stesso nome. Mentre il gioco è fondato sulla possibilità di maneggiare le proprie forze, il gioco d’azzardo è basato sul rifiuto di agire: in un caso c’è l’azione, nell’altro la passione.” (Valerio Magrelli)
Ad un primo colpo d’occhio la sala della Sisal non è che una larga scala.
Un aderente “red carpet” veste i gradini che portano all’ingresso.
Entro senza pensarci, mentre mi accorgo di quanto stona il fermacravatta sul collo del buttafuori all’entrata, sono già distratto dalle due hostess all’ingresso e dai loro foulard profumati, almeno all’apparenza.
Prendo un caffè al bar prima della sala da gioco, mi guardo intorno.
Al bancone non c’è nessuno, sono tutti dietro al vetro, tutti davanti alle macchinette, non riesco a capire se vincono o perdono, sembra che tutti pareggino.
L’aria è quella che si respira nelle hall degli alberghi, l’arredamento è impersonale e forse per questo mi trovo a mio agio da subito.
Ultimo sorso, mi avvio senza ringraziare verso l’ingresso luminoso della sala, con lo slancio di chi si lancia nel vuoto, di chi non vuole pensarci troppo per paura.
Il fumo di sigaretta mi accoglie misto ad un sapore di deodorante per ambiente alla lavanda, un sottobosco di jingle metallici si muove sopra il ronzio degli aspiratori.
Mi trovo a mio agio, mi sembra di esserci sempre stato in una sala come questa.
Queste macchinette non sono poi tanto diverse da quelle dei videogames nelle sale gioco della mia adolescenza e il locale pure, non devo imparare a starci perché è come se ci fossi sempre stato.
Non un suono umano, un sospiro, un grido di gioia, sembra che nessuno perda e nessuno vinca, sembra che tutto sia immobile, fino a quando qualcuno si alza, traslocando con sé il cappotto e il barattolo con le monete, per cambiare macchinetta secondo una cabala tutta personale.
In una migrazione tintinnante, unico squarcio rumoroso in quel silenzio laico, fatta eccezione per lo scroscio delle cascate di monete, indicatori, a cadenza irregolare, dell’entrata di un nuovo giocatore in sala, che sta cambiando delle banconote, più che di una vittoria.
Il rumore delle slot, almeno quelle vincenti: sì perché se la vittoria è fragorosamente rumorosa, la sconfitta è muta.
Affondo in una morbida poltrona di pelle rossa, scelgo uno dei giochi disponibili, infilo 10 € e comincio a crederci, ci credo, fortemente.
“Vincerò, il tempo di raddoppiare questo decino ed esco, così almeno Coca e Pop-Corn me li sponsorizzerà la Sisal” – con questa lieve nota positiva schiaccio lo Start.
Le mie speranze cominciano a girare in un vortice dove si mischiano speranze, probabilità, prugne, ananas, limoni e ferri di cavallo.
Perdo, perdo, perdo ancora, non si allinea niente, poi quando sto per perdere tutto, vinco, timidamente vinco, prendo coraggio e vinco ancora.
“ Vuoi raddoppiare”: la macchina mi sfida, non penso a chi è il proprietario del coltello, a chi lo impugna e per quale delle parti lo fa, è così accetto, vanamente illuso d’essere l’unico padrone della mia fortuna.
Lo schermo cambia, le luci e il gioco rimangono le stesse, il meccanismo è semplice e forse questa è la trappola, la sottovalutazione.
Due file di otto carte parallele, la macchina ne scopre una alla volta, quella superiore.
Lo scopo è indovinare se la sua compagna, al di sotto, è maggiore o superiore.
Semplice, quanto infernale, me ne rendo conto troppo tardi.
– “JACK”.
– Inferiore. Raddoppio.
– “CINQUE”
– Superiore. Raddoppio ancora, ma rimangono altre sei carte, comincio a capire l’inganno.
– “TRE”
– Superiore. Esce il 2. Perdo e stavolta non dimezzo, perdo tutto.
Stavolta è stata sfortuna, sono stato troppo ingordo, ma non smetto, raccolgo gli insegnamenti e gioco, di nuovo, confortato dal supporto dell’esperienza.
Stavolta la parabola che mi conduce alla perdita è scivolosa, secca, repentina e mentre sono con l’ultimo euro disponibile, raccolgo gli ultimi frammenti di speranza, quella di alzarmi almeno in pareggio, cambio il valore della puntata e premo Start.
Mi specchio sull’acciaio ondulato dei braccioli cromati mentre mi sistemo sulla sedia, quasi a prevedere il colpo.
Le sale da gioco sono come le discoteche, si basano sull’illusione e lo stordimento.
Nelle discoteche l’illusione, seppur possibile, è quella di acchiappare, in discoteca ci si va per rimorchiare e questo ci rende incapaci di pensare che in realtà stiamo pagando, magari anche salato, per essere marchiati e poter così entrare in un posto pieno di persone con le quali difficilmente potremo intrattenere una conversazione, dove paghi per bere, per lasciare il cappotto, alcune volte persino per andare in bagno.
Tutto questo si basa sull’illusione, quella del rimorchiare, e sullo stordimento, uno stordimento di vario tipo: acustico e luminoso, musica a palla e mille lucine stroboscopiche.
Così funziona una sala giochi, solo che stavolta l’illusione è quella di una vincita facile e lo stordimento è lo stesso, l’alienazione pure, anche se le luci e i suoni sono quelle delle slot, unico punto di luce e di rumore in sale generalmente semibuie.
Un’ultima cosa: i gradini che ti riportano con i piedi al piano terra sono nudi, spazzati dal freddo portato dal vento romano di Gennaio, eppure di un grigio che sembra eterno.
Perchè l’importante è di render invitante l’ingresso, non l’uscita, ma quando i due luoghi coincidono, può diventare un’opera ardita.
Volevamo solo vedere un film di cui avevamo letto il romanzo.
Che ci era piaciuto.
Ci hanno rubato 5 ore e 100€, in due. In 5 ore…cinema incluso, per fortuna.
Abbiamo buttato un pò di tempo. E un pò di soldi.
Come disse recentemente, uno più saggio di noi, in altri contesti: “Non vi fate infinocchiare da ‘sti qua…”
Matteo Monti, Edoardo Romagnoli
