“DONNA IN CIMA ALLA TORRE CAMPANARIA:
E’ triste che io abbia avuto ragione;e tu sei più saggio di me,hai osato mille volte di più- alzati, cammina, rassomiglia a lui quanto un vivo può rassomigliare a un morto-senza morire. Concepiscilo, e uccidi quasi te stesso. Sii Come lui, ma solo fino a che l’ombra del suo non essere ricada sull’ombra del tuo essere- E laggiù, amore mio, tra le ombre, nell’aldilà, tra figlio e padre, troverai riposo, per lui e anche per te.”
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“E’ solo che il cuore mi si spezza, tesoro mio
al pensiero che io…
che abbia potuto…
trovare
per tutto questo
parole. “
(David Grossman, “Caduto fuori dal tempo”)
Quotidianamente, per fatica o per consolazione, preferiamo spendere qualche perla pescata dallo scrigno della saggezza popolare, piuttosto che iniziare una faticosa e non sempre possibile, ricerca cognitiva.
E questo non vale solo per il tempo, la fortuna o altri argomenti “leggeri”, questa strana forma di indolenza ci permette di relegare al “già detto” eventi fondanti della nostra esistenza.
La morte non è solo uno di questi, ma direi che, insieme al rapporto di coppia, è uno dei più trattati.
Adesso, qual è la forza della saggezza popolare? In una parola: semplificare, rendere fruibili, maneggevoli, eventi complessi, mischiando il sacro con il paganesimo della cultura popolare, fondamentalmente per rassicurarci, a volte con un certo cinismo, sul fatto che non dobbiamo intraprendere un percorso di conoscenza sul reale, che per alcuni “macroargomenti” possiamo affidarci ad altri, chi ci ha già preceduto.
Con la piccola eccezione che qui non stiamo parlando di conoscenze scientifiche.
C’è una frase in particolare che mi colpisce: “ L’unica cosa certa è la morte.”
E’ davvero così? Cosa conosciamo della morte?
Niente.
Non andiamo oltre il dato fenomenico, principalmente perché non siamo in possesso di un metodo di ricerca spendibile in materia.
E allora cosa conosciamo? Le sue contraddizioni:
– La morte è tanto antipatica quanto necessaria;
– La morte è tanto affascinante quanto terrificante;
Quindi, come spesso accade, questo adagio popolare in realtà è solo frutto di un tipo di conoscenza superficiale.
Ecco che, arrivati a questo punto, si evidenzia l’ennesima contraddizione, stavolta nostra: davvero deleghiamo al già detto, ad un bacino di “non sapere”, davvero non siamo in grado o non abbiamo la volontà necessaria per trovare parole nuove, parole nostre per onorare i nostri defunti?
Detta in altri termini: è un po’ come quelli che si abbonano ai servizi per ricevere sms preconfezionati con mielose frasi da film “moccianesco” nella speranza di conquistare una bella ragazza.
LA RICERCA DI DAVID GROSSMAN
“Caduto fuori dal tempo” racconta la storia di un padre che, dopo aver perso un figlio, decide di andare a cercarlo, dove?
Laggiù, perché, come dice uno dei personaggi, “Se ci si va, un laggiù c’è.”
I personaggi sono tanti: un Duca, una levatrice, un ciabattino, un anziano insegnante, dei viandanti, lo scrittore delle cronache cittadine, sua moglie e un Centauro, tutti accomunati dalla prematura scomparsa di un figlio e dall’esser lo specchio dell’autore stesso, lo aiutano in qualche modo a condividere e, forse per questo, a lenire il dolore.
I personaggi li conosciamo solamente attraverso le loro parole, ce li possiamo immaginare solo grazie a ciò che dicono, i loro caratteri, la loro fisionomia sono solo abbozzati, non hanno lineamenti né volti, eccezion fatta per il Centauro di cui sappiamo due cose:
- La parte inferiore del suo corpo nel tempo è diventata una scrivania;
- Non riesce a capire qualcosa, finchè non la scrive;
E’ proprio da questo strano personaggio che ha inizio la ricerca del padre scrittore che decide di affrontare il dolore, per cercare nuove parole e liberarsi così dalla crudele banalità dei clichè che soffocano i sopravvissuti.
(Levatrice:“Bruciare! Bruciare queste parole! Bruciare queste frasi maledette”)
Nel leggere questo libro è inevitabile il ricordo del figlio di David Grossman, Uri, tragicamente scomparso il 12 Agosto del 2006, all’età di 20 anni.
Il lavoro di uno scrittore è scrivere e attraverso la scrittura indagare mondi diversi, esperienze possibili e immaginifiche per permetterci, in questo modo, di accostarci con sempre maggiore precisione alla conoscenza di ciò che siamo.
Grossman “cercando” il luogo dove si va a morire per trovare suo figlio, indaga la morte e lo fa per tutti noi.
Fare i conti con una mancanza, prova tangibile della resistenza a svanire che ancora oppone la morte.
Intraprendere questo viaggio per accettare la morte, per capire che se muore un figlio, ciò che non muore è la sua morte.
Lo sforzo è dei più grandi, trovare nuove parole, per non battere vecchi percorsi, per allargare la nostra visuale e non dogmatizzare le piccole certezze, avidamente accumulate fino a quel punto.
Cercare nuove parole non è un esercizio di stile, ma un qualcosa di necessario per sperare, anche solo, di intraprendere un viaggio come quello intrapreso dal protagonista del romanzo.
Per comunicare con qualcuno che è caduto, morto in battaglia, fuori dal tempo presente quello in cui sono condannati a vivere i sopravvissuti, sono necessarie nuove parole.
Per marcare ancora una volta la netta distinzione che segna il confine tra esposizione e condivisione, esaltando la frivolezza della prima e la necessità dell’altra.
Edoardo Romagnoli