Tutti sanno e sperano

“ROGO IN UNA FABBRICA DI PRATO: SETTE MORTI NEL CAPANNONE DORMITORIO”.

L’articolo che segue è di quelli da due righe “ (…)alle 6 e 45 del mattino un incendio è divampato nella ditta Ye Life Teresa Moda in via Toscana uccidendo sette persone”. Nessun nome delle vittime, nessun dettaglio dell’accaduto, quelli arriveranno nella mattinata del primo dicembre, ma non c’è ne è alcun bisogno, almeno per chi conosce Prato.

E’ giusto che la magistratura indaghi sulle cause dell’incendio, anche se poco importa se sia partito da una stufa elettrica o da un mozzicone di sigaretta, come è giusto che i media diano spazio a tutte le dichiarazioni dei politici locali, nazionali e aspiranti tali, anche se rischiano di valere poco più del rumore se non seguite da politiche serie e da un impegno a lungo termine, è giusto che vengano compiute tutte le riflessioni sul caso e del caso, anche se rischiano di essere fini a se stesse.

In realtà ciò che ci interessa sapere già lo sappiamo, ma sono tutte risposte di cui non ci facciamo niente, perché il fenomeno è più grande della città che lo ospita.

Perché quest’ incendio ha bruciato un velo già macero messo a sottile paravento di una realtà scomoda, di cui, a Prato e non solo, tutti erano e sono a conoscenza.

Sappiamo già rispondere a tutti quei perché che spesso sorgono nell’immediatezza di una sciagura come questa e che ancor più spesso rimangono senza una risposta.

A Prato lo sanno tutti perché in quella fabbrica dormivano delle persone e perché lavorassero fino a 19 ore al giorno, a turni per non dover mai interrompere la produzione; perché lo hanno fatto, con le dovute differenze, anche i nostri nonni.

Sappiamo che dai money transfer di Prato sono partiti fra il 2006 e il 2010 più di 4 miliardi di euro diretti in Cina.

Sappiamo che la mafia cinese è presente sul territorio, apre e gestisce ogni sorta di attività commerciale, che organizza i viaggi per chi vuole raggiungere l’Italia, soprattutto dalle campagne della provincia di Wenzhou. Che taglieggia i commercianti e schiavizza gli operai con orari di lavoro e condizioni disumane, fino a quando non hanno ripagato il costo del viaggio.

Sappiamo perfettamente che la maggioranza dei cinesi lavora così, perché è il modo in cui si fa del business in fretta e perché, se altrove non è più possibile, a Prato è ancora possibile farlo.

Sappiamo che i controlli non bastano perché la durata media di queste aziende sono 3-4 anni, ossia il tempo che impiega la nostra burocrazia per individuare le irregolarità fiscali e previdenziali, perchè quando vengono finalmente scoperte le aziende non esistono più, spesso hanno riaperto magari nello stesso stanzone, grazie ad una nuova testa di legno e un nuovo nome.

Sappiamo che le sanzioni non bastano, perché spiccioli in confronto all’evaso che queste aziende producono.

Sappiamo che questa storia conveniva e conviene ancora oggi che l’età dell’oro degli Ivo Barrocciai è al tramonto. Conveniva agli industriali pratesi che agli inizi degli anni ’90 poterono mantenersi sul mercato grazie alle committenze che affidavano loro per conto terzi e conviene oggi ai grandi brand della moda che su quei prezzi vantaggiosi continuano a lucrare, conviene a privati e immobiliari che vendono loro gli stanzoni e le case, che spesso resterebbero invenduti, conviene alle concessionarie che vendono loro macchine di lusso.

Sappiamo che il distretto dell’industria a Prato senza la presenza della comunità cinese[,] rischia di morire per sempre.

Sappiamo che la storia dei cinesi a Prato è storia recente, sebbene tante siano state le evoluzioni di questa comunità autarchica e silenziosa che [,]dalle poche centinaia di unità degli anni Novanta è arrivata a contare ad oggi più di 15 mila presenze censite ufficialmente sul territorio, il doppio secondo le stime ufficiose.

Parlare dei cinesi come un unicum è impossibile per chi non voglia scadere in facili qualunquismi e anche questo il pratese lo sa.

Perché i cinesi sono una comunità notoriamente chiusa, a Prato come nel mondo, oggi [,]come nei secoli lungo cui si svolge la loro cultura millenaria, eppure conserva al proprio interno i germogli di una rapida evoluzione e di una lenta e difficile integrazione.

E allora c’è il cinese che vive da 10 anni a Prato e ancora non parla una parola d’italiano e il ventenne nato in via Filzi che parla non solo l’italiano, ma il pratese; c’è il cinese sfruttato che lavora 19 ore al giorno e dorme in fabbrica e quello che chiede di poter lavorare a quei ritmi nella speranza di poter accumulare, in pochi anni, quei fatidici 30 mila euro per tornare in Cina e vivere una serena vecchiaia; ci sono quelli che hanno trovato un altro tipo di lavoro e decidono di restare, quelli che si comprano una casa.

I più abbienti aprono ditte e assumono cinesi e non, e la domenica si sgranchiscono le gambe al golf club “Le pavoniere”.

Molti diranno che rappresentano la minoranza, rispondo loro che questa considerazione non ci deve scoraggiare, ci deve solo suggerire che il processo d’integrazione è lungo, complesso e pieno d’ostacoli, ma possibile.

Lo scenario che si delinea è inquietante, è quello di una città in cui vige un anacronismo difficile da debellare, di una città in ostaggio di un modo di produzione ottocentesco, dove il profitto viene prima del diritto, un modo di produzione figlio della domanda viziata di quel capitalismo impegnato esclusivamente nella lotta all’abbattimento dei costi di produzione, incurante dei mezzi necessari per farlo.

Prato deve poter fare a meno di questo tipo di economia drogata, di questa spada di Damocle che invece di uccidere di colpo, uccide lentamente. Sì, ma come? E questa è forse l’unica domanda che non sembra aver risposta, neanche dai pratesi, perché il problema è complesso, sfaccettato e presenta delle dimensioni che non investono solo l’ambito locale e nazionale, ma meccanismi economici globali.

Questa disgrazia non è stata la prima e non sarà l’ultima, il problema c’era e tale rimane e allora la sensazione è che in quel lancio d’agenzia, in quei corpi senza nome, vi sia il racconto di una cronaca senza tempo, di una storia che potrebbe accadere di nuovo, domattina.

E allora tutti continuano a sapere e sperano.

Edoardo Romagnoli

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