Non sono mai stato tipo da treno e non è un fatto di classe, sto scomodo in prima come in seconda e sono sicuro che se ci fosse ancora la terza sarei a disagio anche lì.
Sarà per quei modellini di treni con i quali cresciamo fin da piccoli, eternamente destinati al deragliamento, sarà per i video su YouTube che immortalano i macchinisti alla guida di treni superveloci mentre cazzeggiano peggio di Schettino sulla Concordia, ma continuo a sentirmi più sicuro su un aereo.
Forse anche per questo ho imparato ad ammirare i pendolari, fin dai tempi del liceo. Quando arrivavo in classe ansimante come un cane con ancora il casco in testa e le chiavi del motore in mano, li trovavo sempre lì, a sedere, composti e ordinati.
Alcuni di loro erano in piedi dall’alba, avevano già avuto il tempo di fare colazione, comprare il giornale e accumulare un ritardo di venti minuti, abilmente aggirato con un leggero anticipo sulla sveglia e una perentoria corsa mattutina a digiuno per raggiungere il binario est. E io che riuscivo a far tardi in motorino, abitando a 10 minuti dalla scuola. Capii da subito che avevano una marcia in più.
I pendolari, incuranti dei ritardi e dei vagoni sovraffollati, nel tempo sviluppano una pazienza che va al di sopra delle innate capacità delle quali è fornito l’uomo medio. Una strana capacità di astrarsi, di farsi scorrere il tempo addosso anche in posizioni scomode e in spazi angusti, i pendolari sono persone che per autodifesa hanno dovuto sviluppare una capacità di sopportazione disumana.
Come spesso accade quando si osserva un fenomeno da fuori, non mi ero mai davvero reso conto di quante sono le insidie contro le quali un pendolare deve combattere.
Oggi non posso dirmi un pendolare, anche per rispetto alla categoria, ma da quando sono venuto a studiare a Roma, il mio rapporto con Trenitalia si è notevolmente intensificato, ma soprattutto ho capito una cosa: i pendolari sono eroi che ogni giorno viaggiano su e giù per il paese.

In mano a macchinisti tamarri che sparano il treno a 250 km/h per poi bullarsela sullo schermo attaccato nei corridoi di ogni vagone, a ritardi che non farebbe segnare uno a piedi, a treni baracca con i tetti bucati e i bagni ingolfati, ma soprattutto a persone come lei.
– Te li sei fatti i capelli come piacciono a me?
Freccia Argento da Napoli Centrale a Milano Centrale, salgo a Roma Termini per scendere due fermate dopo a Firenze Santa Maria Novella.
Carrozza 7 posto 3B, al 3A trovo lei: mora, sui 20 anni, due occhiali ingombranti davanti a due occhi piccoli e scocciati, seduta con le ginocchia sul tavolino e i piedi sulla poltrona, era al telefono, incartata in un Woolrich nero e, a vedere l’espressione dei passeggeri intorno, quella chiamata stava durando da tanto.
Il tempo di mettere la valigia sopra la sua testa e già capisco di cosa si tratta: è una chiara stalker da treno. Poi sento gli occhi addosso e mi accorgo che il vagone insofferente sperava in me, confidava che la mia presenza ravvicinata potesse far rinascere il senso del pudore alla stalker e farle abbassare il volume della voce.
Così in un’atmosfera pesante come il piombo, alzai il tavolino, sfilai un libro dalla valigia e mi sedetti, nel movimento feci una torsione col collo e la guardai, con uno sguardo da ambasciata, come a portarle silenziosamente un messaggio da parte di tutti:” Ei guarda che qua stai rompendo le balle a tutti.” Fu inutile, mi squadrò e continuò amabilmente la sua chiamata col ragazzo, avvertii tutta la delusione dello scompartimento.
Pensavo che solo gli anziani fossero convinti che al telefono sia necessario urlare per coprire la distanza della chiamata, ma lei stava distruggendo l’ennesimo clichè a colpi di decibel.
I pendolari hanno un codice di comportamento, una serie di piccole regole utili a non rendere ancor più stressante il loro travaglio quotidiano su rotaia, una di queste è senza dubbio: non urlare al telefono.
Invece quella continuava a informare a gran voce tutto lo scompartimento sulla sua vita e i suoi gusti, era un’alternanza in cui lunghi monologhi lasciavano il passo a silenzi così brevi da non lasciare nessun margine alla speranza che quella chiamata potesse avere un termine a breve.
Poi, usciti da una galleria, iniziammo a sentire un gracchiare dagli altoparlanti messi ai quattro angoli dello scompartimento, la speranza si riaccese. “(…)Si prega i passeggeri di modulare il tono della voce per non disturbare gli altri passeggeri…”
Tutto inutile, ma che utilità pensate che possano avere questi annunci, gli stalker sono sempre a telefonare e per giunta ad alta voce e ve lo posso assicurare: quegli stupidi annunci non li sentiranno mai, li sentiamo solo noi che non stiamo telefonando.
E anche se li sentissero non li toccherebbero più di tanto perché lo stalker da treno non ammetterà mai le sue colpe, non è lui che urla siete voi che avete un udito sopra la media, arriveranno a lusingarvi pur di non darvi ragione. Lo stalker è fondamentalmente un noncurante, non vuole dar noia è che non se ne rende conto, è per colpa di gente come questa se ancora oggi dobbiamo sorbirci la storia di dove inizia e dove finisce la libertà, che poi sembra essere il solito punto.
Lei no, era della tipologia aggressiva, ne aveva fatto le spese una signora a qualche sedile di distanza che ancora si stava lamentando della maleducazione dei giovani di oggi, provai ad incrociare un suo sguardo per chiederle scusa a nome della categoria, ma ormai ero stato etichettato anche io.
– Te li sei fatti i capelli come piacciono a me?
Non voglio pensare come piacciono a te, ma soprattutto non voglio pensare a quanto lo potrai far penare quel povero ragazzo che gli tocca pure tagliarsi i capelli, come piacciono a te.
Eravamo quasi arrivati a Firenze, si prepararono in molti, tutti sollevati dall’idea di scendere da lì a poco, ancora frastornati da quella smitragliata di parole e fatti per nulla interessanti. Gli altri avevano puntato gli occhi su di lei, ma quella non fece una mossa e tutte le speranze si infransero, assieme al fischio dei freni, quando si tolse il cappotto per appenderlo al gancio alla sua sinistra.
In quel momento tutti capirono che se la sarebbero dovuta tenere almeno fino a Bologna, se non fino a Milano e in molti cercarono di prendere sonno, ma come si faceva a dormire.
Intanto ero arrivato, il treno si stava per fermare, lasciai la poltrona, quella alzò subito il bracciolo per mettersi più comoda.
Percorsi tutto il corridoio lanciando sguardi di conforto a quei pazienti compagni di viaggio, poi, proprio sulla scaletta mentre scendevo, un bercio squarciò la nebbia in cui era avvolto il binario 10:
“Scusa Mario, ma sto prendendo il treno… Sì,sì.. No, no ma dammi solo il tempo di trovare la carrozza 7 e ti richiamo, dobbiamo parlare di un sacco di cose..”
Toccai il treno, guardai dal finestrino i superstiti e pensai per l’ennesima volta che gli eroi esistono e sono tutti pendolari.
Edoardo Romagnoli