“Se non è mai stata nuova e non invecchia mai, allora è una canzone folk.”
(Llewin Davis)

Un film che non mi ha esaltato, per fortuna.
Siamo nella New York del 1961, nell’America conservatrice e anticomunista di Eisenhower, dove Elvis è già al suo sesto 45 giri e nelle sale è appena uscito “Colazione da Tiffany”.
Seguiamo le vicissitudine di Davis Llewyn, un cantante folk squattrinato del Greenwich Village che quando non si esibisce al Gas Light Cafè, vagabonda in cerca di un posto per la notte.
I giorni della sua vita si avvicendano come le pagine di un quaderno vuoto, fino al giorno in cui accetta un passaggio per Chicago per fare un provino con Al Grossman, noto produttore della scena folk.
Questa è la trama del film dei fratelli Cohen senza alcuna censura per preservarne il finale e se ci rimanete male ne avete tutto il diritto.
La storia, a dispetto della fama dei registi, presenta una struttura circolare, iniziamo dall’ultimo giorno per tornare lì dove avevamo iniziato, ripercorrendo tutta la settimana dal primo giorno. Un salto rovesciato, semplice, senza carpiati o avvitamenti, una scelta azzeccata che esalta ancor di più le “sensazioni” che il film trasmette.
Direi che è il film americano meno “americano” che abbia visto, nonostante tutta l’America che fa da sfondo; si esce dalla sala come da un lungo giro a vuoto in macchina, senza l’ansia di aver perso tempo.
Il film parla del folk prima che il folk facesse il boom, parla di una New York ancora incosciente del ruolo che svolgerà negli anni a seguire, parla di una vita che, come tante altre, si alimenta di un sogno e che sembra dover fare i conti, col passare del tempo, con l’idea che quel sogno rimarrà tale.
Il Greenwich non è altro che un laboratorio in cui si conserva la tradizione e si allevano in vitro i primi deboli germi della protesta, quei germi che diventeranno fiori negli anni a seguire, fiori colti da altri.
I registi smentiscono che Davis sia l’alter ego di Dave van Ronk, anche se col cantante di Brooklyn ha in comune almeno due episodi: la perdita della patente nautica e un pessimo provino con Bud Grossman, personaggio ispirato ad Al Grossman, noto produttore musicale folk di quegli anni.
Il titolo del film: Inside Davis Llewyn, malamente tradotto in italiano, è invece un omaggio esplicito al suo album “Inside Dave van Ronk” del 1963.
Non è neppure l’alter ego di Phil Ochs nonostante Davis, come il cantante di El Paso, dorma spesso sul divano di una coppia: Jim e Jean, un duo folk realmente esistito in quegli anni.
Una storia semplice, come la struttura che la racconta, un film che proprio quando sembra avere inizio finisce, dove finalmente non ci sono eroi, quelli arrivano per ultimi e non gli viene neanche dato tanto spazio con un finale chiamato, senza alcuna sorpresa.
Una settimana qualunque, l’ennesimo sogno infranto, il rientro, nemmeno poi così complicato, nella normalità di sempre, sono questi gli elementi narrativi del film.
Un film talmente lineare, seppur meticoloso nella ricerca di ricreare quell’America di inizio anni Sessanta, che solo a due grandi registi come i Cohen sarebbe stato finanziato. Intendiamoci, se qualcuno mi avesse raccontato la trama e i registi fossero stati una coppia di finlandesi alla loro opera prima, senza offese per gli islandesi, non sarei mai andato a vederlo.
Per render l’idea è come andare a vedere un film sul mondo dei cellulari prima dell’avvento di Steve Jobs, o sei un appassionato, o sei un curioso o non devi avere un cacchio da fare; però questo film parla anche di altro.
Llewyn è un pioniere, e in quanto tale sogna l’oro, sogna la gloria, ma è un purista e non è disposto a nessuna scorciatoia per ottenerla, come sarà sempre fedele alla scelta di non ricostituire un duo dopo il suicidio del suo partner anche a costo di dover rifiutare delle ottime offerte.
E forse sta anche in questo purismo il motivo per il quale, sebbene siano i pionieri a tracciare la rotta, saranno sempre i nipoti a godersi l’oro; e non sarà un caso se il nipote più celebre proprio quest’anno ha prestato il volto alla Chryisler per lo spot della finale del Superbowl.
Davis non è un personaggio facile da abitare per lo spettatore, non lo adula, non lo vuole vicino a sé, ma lo allontana fino a quando non raggiunge la giusta distanza per poter osservare la sua storia, uguale a quella di altri in quel tempo e non solo.
La musica è centrale in questo film, lo dimostra la colonna sonora, a cura di T. Bone Burnett, la volontà precisa dei registi di non usufruire del playback e la conseguente travagliata scelta dell’attore protagonista che doveva essere al contempo attore e cantante.
Una musica salvifica che lenisce ogni ferita, ogni notte passata su un divano, ogni inverno passato senza cappotto, con le solite scarpe, ogni vita che scorre uguale a se stessa, come la musica di un carillon, destinata a finire, lì dove era iniziata, nel buio totale, senza picchi e con tanti bassi.
Un film circolare, con un tema di nicchia, una storia che racconta di tante altre già passate, che passano e passeranno nel silenzio.
E se è vero quello che Bud Grossman dice a Devis:“Con questa roba non si fanno soldi”, allora vuol dire che i Cohen stavolta si sono davvero superati.
Edoardo Romagnoli