“Lavarsi le mani prima di sedersi a tavola.” (cit)
Nell’era della crisi esiste un’azienda tutta italiana che gode di ottima salute.
E’ una catena di ristorazione con circa 16 mila addetti e più di 5 mila locali solo in Italia, con un range che può variare dal piccolo bar di periferia al ristorante di lusso in pieno centro storico; un’azienda che investe 130 miliardi all’anno, circa il 7% del pil italiano, con riserve di contanti che ammontano a 65 miliardi di euro e un unico problema: come investire questa immensa mole di denaro.
I dirigenti, ormai da anni, hanno deciso di mantenere la sede principale in Italia, nazione unificatasi anni dopo la fondazione dell’azienda e, adattandosi alla geografia della neonata nazione, pensarono di dislocare la sede operativa al Nord e quella organizzativa al Sud.
La filosofia aziendale non ha mai trascurato il settore estero, dove operano da anni con grandi investimenti e ottimi ricavi, solo in Germania sono presenti con 300 pizzerie e un fatturato di circa 123 milioni di euro nell’ultimo decennio.
La differenziazione è uno dei punti chiavi, anche all’estero, dove oltre ai soliti ristoranti sono stati aperti anche: locali notturni, alberghi, distribuzioni di benzina, negozi di abbigliamento e gioiellerie, oltre ai cospicui investimenti nelle energie rinnovabili e in numerose proprietà immobiliari.
L’estero rappresenta alcune difficoltà, soprattutto d’integrazione, ma una volta superato il primo periodo di adattamento, i rapporti con il burocrate sono molto più snelli e amichevoli rispetto a quello che accade in Italia; nonostante ciò, la direzione aziendale è sempre stata quella di difendere i tanti posti di lavoro a tempo indeterminato che, negli anni, è riuscita a creare nel nostro paese.
La mission è segreta, ma, almeno nel settore della ristorazione, sembra poter essere riassunta nella formula: “Diamo da mangiare a tutta Italia e poi chiediamo il conto. Niente carte. Niente assegni. Solo cash.”
Un’azienda all’avanguardia anche nelle strategie di comunicazione, dove si distingue per un apparente mutismo generale, niente pubblicità, nessuno slogan, nessuna conferenza stampa; una scelta radicale, soprattutto nell’era dei social, ma che, visto i numeri, sembra vincente sopra ogni ragionevole dubbio.
Voci riportano che perfino il presidente in persona non abbia mai rilasciato una dichiarazione ad alcun organo d’informazione e che, in più di 30 anni di onorata attività, siano pochissimi i fortunati che possono dire di averlo visto di persona, almeno una volta.

Gli economisti non potranno permettersi ancora a lungo il lusso di escludere dai manuali universitari, i rivoluzionari metodi d’acquisizione con cui l’azienda, ricordiamo tutta made in Italy, ha da sempre operato sul mercato.
Prendiamo ad esempio un bar: normalmente quando un locale cambia gestione, cambiano molte cose, dal proprietario fino all’arredo e questo crea un certo senso di disorientamento nei clienti, soprattutto quelli abituali.
Questo accade principalmente nei bar, perché il bar è più di un esercizio commerciale, è il luogo di ritrovo che riunisce più generazioni nonché uno degli ultimi luoghi di aggregazione rimasti.
Per questo motivo la dirigenza, oramai da molti anni, opta per una linea più soft che prevede l’acquisizione senza il cambio del proprietario, ma lasciando il vecchio gestore in partecipazione; una specie di presidenza onoraria.
Esiste anche la possibilità di acquisizione con il cambio del vecchio proprietario, al quale subentra un terzo proprietario, estraneo anche all’azienda stessa, chiamato testa di legno, per le sue riconosciute doti manageriali.
In questa logica non invasiva rientra anche la scelta di non cambiare il nome, ma rinnovare l’insegna, ammodernare gli arredi conservando lo stile del locale e, naturalmente, mantenere i soliti prodotti, spesso cambiando i fornitori.
A questo vanto nazionale della ristorazione non importa il fatturato di ogni singolo punto vendita e nemmeno di quello totale, l’obiettivo è riuscire ad aprire più luoghi possibili, in cui poter dar da mangiare ad un numero sempre maggiore di clienti; a costo di farlo in perdita.
Non a caso l’EXPO 2015, che si propone di “NUTRIRE IL PIANETA”, per farlo ha scelto di adagiarsi fra le solide braccia dell’azienda leader nella ristorazione made in Italy, forse per tutte le eccellenze qui elencate e quelle che sono rimaste fuori oppure per la mancanza di concorrenti all’altezza.
Con i loro metodi innovativi e l’esperienza secolare questi capitani d’impresa hanno fatto sì che le concorrenti, una volta trovatesi di fronte a tale gioiellino, rinunciassero spontaneamente al ruolo loro assegnato.

Questa ditta esiste e la potremmo chiamare “Mafie riunite a tavola s.p.a”, infatti questi sono i numeri che evidenziano la portata colossale del business mafioso nel settore della ristorazione.
Un’infiltrazione che rischia di far marcire l’intero settore, perché le mafie non hanno interesse nella qualità, non si curano del fatturato, le mafie hanno bisogno solo di continue insospettabili lavatrici in cui ripulire una mole enorme di denaro sporco che per contarlo ci vorrebbe una bilancia.
Se abbiamo inquinato, solo in Campania, quasi 3 milioni di metri quadri di territorio, se la terra dei fuochi si estende per più di 1000 km quadrati, se intere navi cariche di rifiuti tossici sono state fatte affondare al largo delle nostre coste, la colpa non è da attribuirsi per intero alle mafie e a tutta quella parte di società civile corrotta e connivente, ma a tutti. Perché la disinformazione è un lusso che non ci possiamo più permettere, l’informazione è uno degli strumenti primari di sopravvivenza, soprattutto nella moderna società liquida; informarsi cercando soluzioni individuali, ossia che partono dall’individuo, tutto entro i confini delle possibilità di intervento che possediamo.
Il fatto è che i rifiuti “trattati” dalla mafia sono i nostri, alzando il livello dei rifiuti riciclabili, si abbasserebbero di conseguenza i numeri del traffico dei rifiuti, sempre che le organizzazioni criminali non amplino il business delle riciclabili.
Il fatto è che se conosco le lavatrici delle mafie, le evito.
Nella campagna elettorale per le europee non si è fatto alcun cenno a questo che dovrebbe essere la prima delle urgenze, in un paese che avanza per emergenze; se non fossimo in Italia, sarebbe strano questo silenzio.
E così assistiamo a due fenomeni che sembrano slegati fra di loro, ma non lo sono.
Da una parte si è rifiutato un modello di EXPO sostenibile, per abbracciare la solita, logorante logica della speculazione edilizia, cemento su cemento e chi se ne frega se si parla di nutrire il pianeta e di energie rinnovabili; d’altronde gli orti non portano bustarelle.
Dall’altra c’è un tentativo di associare alla cucina, un immaginario patinato, impastato con le paillettes della televisione, mentre nel mondo reale, soffocati da una concorrenza sleale, continueranno a chiudere tutti quei luoghi nei quali si è tramandato per anni la cultura del cucinare e del mangiare; rischiando di perdere una cultura del cibo, già fortemente indebolita nelle nuove generazione.
Il tutto in un silenzio rotto sempre dalle solite voci, dietro le quali si accoda il solito coro.
Nel mezzo un paese che mangia mozzarelle blu, fa colazione con il latte pieno di escherichia coli, condisce le sue insalate avvelenate con olio deodorato e beve vino al metanolo, mentre Cracco ci vende le patatine fritte all’uovo e zenzero.
Edoardo Romagnoli
[…] L’Expo doveva essere tante cose, ancor prima che si decidessero i terreni agricoli da espropriare per colare un pò di cemento e rendere così omaggio alla terra, generatrice di quel cibo con cui l’Esposizione Universale di Milano si propone di nutrire il mondo. Poi sono iniziati gli appalti e i lavori e con quelli si è iniziato davvero a mangiare. […]