Ho saputo del concerto dei Rolling Stones per caso, mentre leggevo le notizie di Roma su uno di quei siti dalle grafiche orribili, di quelli dove ancora scrivono gli articoli grazie alla nobile arte del copia e incolla.
“Grande attesa per il concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo di Roma”.
Non ho un grande pedigree come frequentatore di concerti, anzi a dir la verità penso di aver visto al massimo 7 concerti, di cui uno di Elio e sei di Guccini, non ho neanche una passione viscerale per le pietre rotolanti.
Eppure per tutto il pomeriggio non ho fatto altro che pensare al concerto che si sarebbe tenuto da lì a pochi giorni, proprio a due passi da casa mia, in una location storica, in una data unica, ma soprattutto di una band che volente o nolente ha segnato la storia della musica e che da quarant’anni calca i palcoscenici di tutto il mondo.
Non mi era mai successo, ma stavolta sì, lo ammetto avrei voluto poter dire il fatidico: C’ero anche io.
Poi mentre stavo elaborando il lutto e maledicendo la proverbiale apaticità che mi contraddistingue un amico di mio cugino mi contatta su Facebook:
“ Sto venendo a Roma per il concerto dei Rolling Stones. Ho un biglietto in più, è di tuo cugino che ha ringambato.”

Se avessi chiesto aiuto a Padre Pio avrei ringraziato lui, ma non avendo chiesto aiuto a nessuno, non ringraziai proprio nessuno, se non l’inimitabile tendenza di mio cugino nel dare i pacchi all’ultimo minuto.
Ore 16:30. Domenica pomeriggio. Circo Massimo è impacchettato come un enorme uovo di Pasqua. Appuntamento davanti all’ingresso, lato Bocca della verità. Da profano ho optato per una tenuta da turista tedesco, eliminando il sandalo col calzino bianco e l’occhiale da sole, sostituti da un paio di scarpe da tennis e le chiavi di casa attaccate al passante dei pantaloncini Quecha color cachi.
La fila è poca e scorre veloce, il tipo all’entrata tranquillizza tutti sul fatto che strapperà i biglietti con delicatezza, conscio che all’indomani diventeranno un cimelio da appendere al muro, tranne poi strappare tutto con la grazia di un unno.
L’area vip è già piena, sotto al palco pure, le collinette tracimano, i Sebach pure e neanche i prezzi dei baracchini riescono a consolarmi (11 euro=birra+panino Viva la Mamma con prosciutto di Praga e carciofini).
17:00. Proviamo a guadagnarci un posto nell’arena, ma appena scendiamo da una delle scalinate mi accorgo che il circo è già pieno fino all’orlo, secondo un’idea di orlo tutta mia, che, dopo poche ore, si rivelerà completamente dissonante da quella degli organizzatori. Gli addetti alla sicurezza e quelli dello staff si sgolano ripetendo una frase che diventerà uno dei mantra della serata: “Solo transito, signori. Sulla scala solo transito”. Più che giusto, la scala è stretta e instabile, la gente è tantissima, ma siamo nell’era dei social o no? Certo che sì e nessuno vuole fare a meno della panoramica che si gode da lassù, così mentre la maggioranza transita con lo smartphone in mano, scommettendo tutto sullo stabilizzatore della fotocamera, i più sfrontati non disdegnano la sosta con selfie.

Siamo nel mezzo, proviamo a muoverci, ma fra il terreno accidentato e la totale mancanza di spazi, finiamo a pochi metri dai piedi della scala, fermi e ritti come guardie reali inglesi. Torno in me, ma sopratutto mi ritornano alla mente tutte le buone ragioni con cui per anni ho giustificato la mia cronica assenza a qualunque tipo di manifestazione di massa.
La prima è che la gente suda e alcuni molto più di altri. Se a questo aggiungete la ressa, ma sopratutto il fatto che sudare senza maglietta sia rock, come risultato avrete un continuo struscio di schiene e pance che si scambiano sali minerali sottoforma di sudore.
Ore 18:00. Nel frattempo la scelta di indossare una maglietta bianca Decathlon era stata una pessima idea, il sudore la stava rendendo, a poco a poco, sempre più trasparente, tanto che per un lunghissimo momento sono stato incerto se togliermi la maglia e buttarmi inerme in quel fiume di sudore straniero o essere scambiato per un improbabile concorrente di una gara inesistente per mister maglietta sudata.
Se avevo ancora un dubbio, l’ennesimo contatto sudaticcio con un panzone tutto peli e gilet, me lo toglie definitivamente. Maglietta, tutta la vita.
Ore 19:00. Non abbiamo ancora trovato un posto a sedere, nel frattempo giochiamo a guardia e ladri con la security, noi proviamo a prendere un posto sulle scale, ci riusciamo per una decina di minuti e poi arrivano loro, megafono alla bocca e ci spostano. Poi vanno via e noi ci rimettiamo. La birra è l’unico mezzo di sostentamento, ma dopo quasi tre ore in piedi sotto al sole, la fame mi spinge a lasciare il posto per andare in cerca di uno di quei panini Viva la mamma al prosciutto di Praga e carciofini.
Ore 20:00. L’ennesima birra in bottiglia di plastica si porta via gli ultimi cinque euro e quel poco di sole rimasto, mentre in lontananza, alla destra del palco, l’altare della patria fa da sagoma bianca in un cielo arancione.
Entra John Mayer, ma a nessuno sembra fregare qualcosa. Siamo sulla scala, il palco si vede molto bene, c’è solo da resistere per un’altra ora, mentre portano via a braccio l’ennesima svenuta che, bianca cadaverica, sibila un debolissimo “nooo” prima di essere portata via. Non deve essere bello quando, dopo un’intera giornata a resistere sotto il sole come un beduino, solo per un piccolo mancamento, vieni trascinato via a forza, costretto ad abbandonare il presidio che tanto avevi difeso; digerisco a fatica il panino ai carciofini preso da un sincero sentimento di compassione per la sventurata.
Ore 21:00. La domanda inizia inevitabilmente a serpeggiare fra la folla: ”Ma quando iniziano? Alle nove e mezza? Alle dieci?”, come se ci fosse qualche alternativa ad un eventuale ritardo dopo che hai sganciato 90 euro di biglietto.
Se non sono mai andato ai concerti e le poche volte in cui ci sono andato, sono andato a vedere Guccini ci sarà un motivo, anche uno inconscio. Eppure non capivo com’è che mi ritrovavo lì da più di quattro ore, in piedi pressato come uno schiavo egizio costretto a vegliare il faraone al buio di una piramide.
Qualche tempo fa mi avevano mandato, per lavoro, a seguire la canonizzazione dei due papi a San Pietro, un’esperienza terrificante che oltre ad un pessimo ricordo mi lasciò una sequenza infinita di domande: ma cos’è che spinge le persone a sopportare tutto questo nell’era della tv in hd?
Il fatto di esserci giustifica veramente tutto lo sbattimento che generalmente precede un evento simile? Cos’è che ha in più l’esserci fisicamente rispetto al non esserci?
Partiamo da un presupposto: se vado ad un evento è perché voglio assistere a quell’evento, voglio riuscire a vederlo ed è questo il motivo per cui si muove con largo anticipo, con tutti gli sbattimenti che comporta.
Eppure una buona visuale sul palco non è cosa per tutti, nonostante si sia pagato anche il biglietto, è una cosa fisiologica dei grandi eventi, ma almeno al primo maggio uno non paga l’ingresso. E allora che gusto ha esserci per esserci, costretto in un angolo dove ti è impedita la visuale o emarginato in fondo, dove il palco è la luce di un aereo?
E’ un problema di organizzazione? E’ un’operazione infattibile quella di mettere a sedere 70 mila persone, stile stadio? Non lo so, d’altronde sono un profano.
Ore 21:55. Ormai il cielo è nero, di un nero lucido che sembra seta. La stanchezza è tanta, ma si mitiga con la convinzione che tutto possa partire in un momento, che lo spettacolo tanto atteso possa finalmente avere inizio.
Poi d’un tratto si abbassano le luci, la gente urla, le luci del palco si spengono e una voce annuncia: “Ladies and gentlemen, the Rolling Stones” e le urla si amalgamano in un’unica voce che fa vibrare il circo massimo. La storia incontra la storia e cancella tutto: la lunga attesa, il caldo, la ressa, le polemiche sul canone d’affitto (circa 8000 euro), quelle sull’organizzazione, lasciando posto alla musica.
Entra Richards che, Fender al collo, intona il riff di Jumping Jack Flash, un boato accoglie l’ingresso di Mick Jagger, giacca d’oro e pantaloni neri, che intonando:” I was born in a cross-fire hurricane (…)” apre ufficialmente le danze.
Il più classico dei “Ciao Roma, ciao Italia” e subito Let’s spend the night together , la gente balla, una distesa di smartphone luminosi saltella cercando di immortalare brandelli di concerto.
It’s only rock’n’roll (but i like it), Jagger abbandona la giacca d’oro e si muove come un serpente vestito di nero, dimostrando, ancora una volta, come l’età sia un fattore anagrafico e che a tutto c’è rimedio, anche ad un’intera vita vissuta da sbandato.
Tumbling Dice e Street of love, prima del pronostico:”l’Italia vincerà i Mondiali”, aveva portato bene nel 2006, intanto nella mia fila scomposta fanno gli scongiuri, ma stasera Mick è in vena e azzarda il risultato esatto della partita di martedì: “Italia 2 – Uruguay 1”. Noi prendiamo nota. Arriva l’ora della canzone scelta dal popolo dei social: Respectable e sul palco, non sale l’annunciato Bruce Springsteen, ma il buon vecchio John Mayer che, chitarra alla mano, accompagna Richards, Wood e compagni, concedendosi il contro canto nel ritornello. Out of control, ho perso il conteggio del numero di camicie indossate da Jagger, davanti a me uno spilungone biondo sdraiato in una divisa da basket ha tirato fuori un ditone enorme e me lo sventola davanti alla faccia, mentre i due davanti hanno deciso di limonare.
Cioè limoni su Out of control? Non ti dico di aspettare Street of love, ma almeno Honky Tonk woman.
E infatti arriva Honky Tonk woman, ma non limonano e subito dopo una piccola pausa, dove Jagger introduce, un po’ in inglese un po’ in italiano, tutti i componenti del gruppo, sottolineando, proprio in italiano, come Wood dovrebbe “mangiare un po’ più di pastasciutta”, per poi aggiungere un sussurrato:”Me too”.
A riprendere il concerto è Keith Richards che sigaretta in bocca e bandana giamaicana in testa, prende il palco intonando You got the Silver, accompagnato da Wood, la schiena mi fa male e non riesco a smettere di pensare al letto della suite da 14 mila euro su cui si è riposato Richards per essere così maledettamente scatenato. Dialisi o no, questi sembrano non perdere un colpo.
Can’t be seen e Jagger continua a chiedere se va tutto bene, ma le lamentele di un giorno intero sembrano essere scomparse, va tutto dannatamente bene, nonostante il sudore, il male alla schiena e alla gambe, le otto ore in piedi e la giornata di lavoro di domani, va tutto dannatamente bene.
L’omaggio al rientro nel gruppo di Mick Taylor, che ricambia l’affetto con l’assolo di Midnight Rambler, a seguire Miss you, Gimme Shelter e Start me up, prima della trasformazione di Jagger in diavolo.
Mantello nero con piume rosse per Simpathy for the devil, il palco si tinge di rosso e sui tre maxi schermi passano le immagini di un bosco in fiamme, mentre la mezzanotte si avvicina.
Brown Sugar è il pretesto per la solita finta del “grazie mille, ora andiamo. Buonanotte”, per poi rientrare acclamati dalla folla che già chiede un bis impossibile.
D’altronde You can’t always get what you want ammoniscono le pietre rotolanti dal palco prima di chiudere definitivamente con Satisfaction.
I fuochi d’artificio e gli ultimi ringraziamenti segnano l’epilogo, quello vero, e dimenticare sarà impossibile.
Edoardo Romagnoli