Villa Silente

Borgo Ermete era avvolta nella solita ovatta nevosa in cui si rifugiava nei primi giorni d’ogni inverno; quando gli Inciacci arrivarono, i de Lollis erano lì già da un’ora.

Il barone Duccio de Lollis aveva il fisico dei generali d’armata ancora in servizio, si muoveva lento come i gatti domestici, in quella posizione perfettamente di profilo si potevano scorgere i lunghi pomeriggi passati ad oziare nelle camere delle sue dimore, la posa e la flemma di chi non ha mai avuto fretta, nessun appuntamento indeclinabile a cui tardare.

Alla destra del barone si ritagliava un suo spazio discreto la duchessa Clementina Sofia, sua moglie, mentre alla sinistra, uno accanto all’altro si erano disposti i gemelli, Gian Filippo e Gian Carlo Maria, due ordinati ventenni con un filo di baffi.

Fausto Inciacci era un vascello calvo che ad ogni passo ondeggiava a destra o a sinistra con il rischio perenne di scuffiare, due polsi strabordanti contenuti dal cinturino di un Rolex Oyster Perpetual GMT Master II, solo le mani si muovevano rapide e scattose, con una gestualità consunta dall’abitudine.

Un imprenditore sulla sessantina con un naso consumato dalla cocaina, incastonato in un faccione dove si era accumulata così tanta pelle da rendere invisibili gli zigomi; aveva ereditato una ditta tessile dal padre, Cosimo, la “Inciacci e figli S.p.a” con la quale si era arricchito fino a diventare uno degli uomini più facoltosi della regione.

Arrivò con la famiglia al completo: la moglie Giovanna, un’ingombrante quarantenne appesantita dal trucco, e il figlio Nando, un diciassettenne ben avviato sulla via dell’obesità.

– Giovanna dai scendi su che ci presentiamo ai signori.

Giovanna intenta a ripassarsi il gloss allo specchietto del passeggero, mugolò qualcosa, dette una veloce scrollata ai boccoli biondi compattati dalla lacca, chiuse il parasole, schiantò il lucida labbra nella pochette blu rigido e uscì dalla macchina, esibendo il più classico dei suoi sorrisi di proforma.

Nando rimase in macchina per guidare il suo Milan in una complicata trasferta di Champions in casa del Real Madrid, speranzoso che la Psp non si scaricasse prima del triplice fischio.

I de Lollis erano ancora lì, in piedi e attoniti, alla destra della fontana dei ghiacci, Clementina si guardava attorno sperando che non vi fosse nessuno oltre loro ad assistere all’insolito incontro.

– Ragazzi 300 km in nemmeno due ore. Qua c’è da gridare al record!- esultò ballettando dentro un paio di mocassini blu, poi allungando la mano continuò – Piacere Fausto Inciacci.

Il quadretto che si compose alla stretta di mano dei due capifamiglia assomigliava ad una scenografia malriuscita, ma i due erano talmente diversi che avrebbero potuto essere una coppia perfetta.

I guanti del barone pulsavano scattosi seguendo il movimento delle mani che scalpitavano dentro quell’elegante cuoio color nocciola, in un tentativo, solo accennato, di contenere tutta quella scomposta vitalità.

– Il piacere è tutto mio – disse sfilandosi il guanto destro- sono il barone Duccio de Lollis e lei è mia moglie, la duchessa Clementina Sofia.

– Piacere signora, e questi due ragazzacci chi sono?

– Piacere – squillò – io sono Gian Filippo.

– E io sono Giancarlo Maria – lo seguì suo fratello in un rituale abraso nonostante la giovane età, ma pur sempre efficacissimo.

Alla vista dei due gemelli, elegantemente fasciati in due cappotti diversi solo nel colore, Giovanna si infiammò in uno dei suoi soliti afflati d’entusiasmo:

– Ma che bambini educati.- esclamò torcendo il collo verso destra.

I gemelli erano visibilmente divertiti da quei modi inconsueti.

– Bene dopo le presentazioni possiamo andare, che dice barone?

– Beh, direi che non vedo altre possibilità.

– Se non quella di gelarci il culo qua fuori. – riuscì a pronunciare Giovanna, prima di scoppiare in una risata minuta e acutissima.

Clementina iniziò ad aggiustarsi i capelli, come d’abitudine nei momenti di imbarazzo, ma per quanto spostasse la frangia o accarezzasse le punte con il palmo, il caschetto imbiancato rimaneva impassibile a confinarle quel viso disteso.

La fontana, quel rumore d’acqua sull’acqua occupò per un attimo la piazza, rendendo il tutto ancor più surreale di come già appariva.

Il barone si avviò verso la Land Rover d’annata, sinistra in tasca e destra nei capelli, a regolare quel ciuffo brizzolato, privilegio di pochi a quell’età.

Aprì la portiera dal lato passeggero e fece salire Clementina, mentre i ragazzi prendevano posto dietro, ognuno adagiato sul suo sedile, senza nemmeno il pensiero di invadere quello del fratello; l’Inciacci era già in sella alla sua Mercedes ML AMG full optional da 5 km al litro.

Villa de Lollis distava poco più di dieci minuti in macchina dalla piazza di Borgo Ermete, era stata costruita sulla sommità del poggio, ma tale era stata la bontà del lavoro che quel colle sembrava fosse emerso così, con quella bella villa di serpentino sulla sommità.

La villa apparteneva da sempre alla famiglia de Lollis: il barone Duilio Azelio de Lollis, la fece costruire nel 1753 e per farlo scelse Luigi Vanvitelli, lo stesso architetto che re Carlo VII di Borbone volle per la reggia di Caserta.

Di testamento in testamento la villa era passata di generazione in generazione fino ad arrivare al barone Aristide de Lollis che, innamorandosene fin da subito di un amore geloso, rinunciò a gran parte dell’eredità per diventarne unico proprietario, comprando i tre quarti della proprietà dalla sorella e dai due fratelli.

Il resto lo spese nel rimetterla a posto e il suo fu il terzo restauro nella storia della villa: il primo avvenne nel 1913, soprattutto per ritoccare gli affreschi nel piano nobile, il secondo nel 1936.

Poi durante il 1960 venne costruito un terrazzo porticato tutt’attorno, le stalle vennero rese abitabili in previsione dell’aggiunta di una dependance per la servitù e nel bel mezzo del giardino alla destra del roseto venne costruita una grande piscina a fagiolo.

L’Inciacci era uno di quei piloti urbani pieni di autostima che è meglio non incontrare, competitivo fino alla morte, intavolava inutili sfide con altri automobilisti che continuavano a guidare ignari della gara nella quale erano stati appena coinvolti. Guidava con il palmo della destra sul volante e, mentre con la sinistra cercava di schiccherare la cenere da una fessura del finestrino, con il pollice scorreva il palinsesto radiofonico di quella Domenica pomeriggio. Tallonava la Land Rover del barone ad una distanza mai superiore al metro, quella giusta per non apparire troppo dipendenti, evitando che l’altro pensi di esser dotato di un mezzo più potente; talmente vicino che quando il barone si fermò per aprire il cancello della villa per poco non rischiò di tamponarlo.

– Ei, ma stia attento, per carità. – gridò il barone, subito ripreso da Clementina che da dentro l’abitacolo lo invitava a mantenere l’aplomb.

– Sì, oh, caspita mi scusi… è che il bolide non si tiene, meno male che gli ho fatto mettere i freni in ceramica.- lo rassicurò l’Inciacci sbucato dal finestrino oscurato.

La poderosa frenata lasciò impassibili sia Nando, oramai in finale contro il Borussia Dortmund, sia Giovanna, impegnata a tamponarsi le guance a colpi di fard.

– Cioè ma questo c’ha una villa così e non ci mette manco un cancellino elettrico?- sibilò sorpreso l’Inciacci alla moglie, mentre il barone era intento ad aprire anche la seconda anta del cancello in ferro battuto.

– Lo metterai te caro.

– Su questo ci puoi giurare.

Il barone, non trovando risposte garbate da dare, simulò di non aver sentito, aprì il cancello, bloccò le ante, rimontò in macchina e percorse a passo d’uomo il vialetto che portava alla villa. L’Inciacci non era ancora sceso dalla macchina quando sentenziò:

– Qui ci sarebbe da fare una bella spianata di cemento perché sto ghiaino fa cacare.

Duccio rimase fermo sulle sue gambe secche, in un silenzio costretto.

– Io sono un estimatore mio caro conte e, almeno dalle foto che ho visto, questo bel villone mi interessa moltissimo e non lo dovrei neanche dire, va tutto a mio svantaggio poi al momento della contrattazione. – lo incalzò Inciacci sfruttando qualche vecchia tecnica da buon mercante.

– Barone.- puntualizzò Duccio.

– Come?- ribatti Fausto.

– Non sono un conte sono un barone.

– Ma sì conte, barone, in fondo sono sempre…

– Bene, vogliamo andare a vedere la casa.- lo interruppe Giovanna starnazzando con voce acuta da dietro il suo specchietto da borsa.

– Prego – si inserì Clementina, decisa a stemperare la situazione – seguitemi vi faccio strada.

La comitiva si accodò dietro la duchessa, tutti tranne Nando che rimase in macchina per cercare di recuperare una finale di Champions che lo vedeva sotto di due gol a pochi minuti dalla fine.

La visita durò meno del previsto e gli Inciacci non erano interessati né alla storia della casa né tanto meno agli aneddoti che, ogni stanza, faceva riaffiorare nella memoria della duchessa.

Si accodarono tutti, gemelli inclusi, dietro Clementina che si aggirava per la villa come un cicerone inseguito da una comitiva di turisti.

Duccio li seguiva con lo sguardo, un ambiente o due in ritardo, ma sembrava che ad ogni passo si estraniasse un po’ di più, vedeva nell’incedere di quella coppia un’invasione non pacifica, gli sembrava di aver allestito una mostra troppo erudita per il pubblico accorso.

Intanto l’Inciacci, immerso nel marmo continuava a domandare: Quanto pagate di bollette? Quanto impiega l’impianto a riscaldare tutta la casa? E le spese per il mantenimento del giardino?

I nobili non amano intavolare discussioni sul denaro perché, seppur consci dell’importanza del denaro, restano maestri d’etichetta.

Duccio adesso vagava per la casa per inerzia, si chiedeva se non era meglio affidare il lavoro ad una agenzia immobiliare e risparmiarsi l’umiliazione di veder snobbata la storia della casata in quel modo.

Si fermò di colpo e inspirò forte.

L’odore delle case è un miscuglio di feromoni, cibo, discussioni e deodoranti per ambienti che ti fa dire “casa” a occhi chiusi, è il risultato di più vite che scorrono insieme dentro le solite mura.

Villa de Lollis sapeva di legnaia, della legnai della villa con quell’aria secca, crespa, spigolosa da far tossire, un odore non proprio familiare nonostante di quella famiglia ne cogliesse molti aspetti.

Eppure in quel profondo respiro il barone si trovò solo: dov’erano gli odori di casa? Dov’era finita tutta la scia di vita vissuta?

La villa aveva più di trenta stanze: dodici camere da letto, sette bagni, sei salotti, due studi, una cucina e due sale da pranzo, ma Duccio non trovò nessun odore.

Contava più di trenta finestre, di cui dieci crociate, due lucernari che illuminavano il secondo piano e una grande serra in giardino, ma era come se da nessuna di quelle vetrate potesse passare un odore, uno qualunque; Duccio per un secondo pensò di spalancarle tutte.

Trenta ettari di terra la circondavano sui quattro lati: un mare verde bombardato di cespugli di rose e lavanda, disseminato di margherite, campanule e azalee, eppure nessun odore.

Era come se, in quel giorno, le pareti fossero troppo verticali, quei soffitti troppo alti per riuscire a un’essenza qualunque di rimanervi aggrappata, come se le molecole di qualunque odore fossero troppo pesanti per rimanere sospese fra gli intagli del soffitto a cassettoni e troppo grandi per adagiarsi fra le venature del marmo.

Dal giardino iniziò a camminare a passo svelto verso il pescheto, aprì il cancellino e si mise in attesa di quello Scirocco che da Marzo a Novembre spolverava le colline, portando un odore strano, così dolciastro e persistente da non sembrare naturale; un olezzo talmente intenso che si faticava a credere che il vento lo potesse estrarre dai quei fiori bianchi, sembrava provenire da un’enorme fabbrica, di quelle dove miscelano intrugli chimici con uno zero virgola niente di qualsiasi frutto per fare i succhi in bric.

Quel pomeriggio l’aria era leggera e piccante, nessun odore, nessun aroma dolciastro, solo vento e fango gelato; Duccio tornò verso la casa, adesso sembrava essersi completamente scordato dei suoi ospiti.

Nel salotto del primo piano, quello del bridge, talvolta si poteva avvertire i resti di sigaro spento, specie nei giorni natalizi, o di brandy lasciato evaporare da una bottiglia aperta, ma anche in quella stanza Duccio non riuscì a percepire più niente e mentre continuava a ingurgitare aria dal naso, sentì la testa farsi più leggera.

Uscì appoggiandosi sul tavolo da bridge, aveva bisogno di sciacquarsi la faccia, di schiarire i pensieri, forse era tutto uno scherzo del cervello, provato da quei giorni melmosi. Imboccò il corridoio, lo percorse barcollando tra gli sguardi dipinti di tutta la famiglia al completo, da Duilio Azelio fino ad Aristide, con la vergogna di sempre.

La stanza da letto del barone era inondata di lavanda fresca, che, quando vi era ancora la servitù sufficiente, veniva tagliata via tutti i giorni dal giardino, ma Duccio di quell’odore aveva imparato a fare a meno già da tempo.

Entrò nel bagno, si lavò la faccia, quando riemerse dentro lo specchio si riconobbe e un attimo di vuoto lo riempì.

– Duccio… caro… Duccio- si spandeva la voce di Clementina

– Sto arrivando.

– Ti aspettiamo per i saluti, i signori stanno andando.

Il barone scese la scalinata di sinistra, l’unica delle due rimasta con il tappeto di velluto rosso a proteggere i gradini in marmo, dove in fondo lo aspettavano, imbalsamati in un sorriso stanco, i due Inciacci.

– Possiamo parlare un attimo io e lei?- azzardò Fausto appena Duccio scese dall’ultimo gradino.

– Ma certo, mi segua.

Il barone fece pochi passi, afferrò una piccola maniglia d’ottone e spalancò la porta su di un corridoio mal illuminato di cui non si riusciva a scorgere la fine.

– Prego – disse mentre disegnava un semicerchio a mezz’aria con la sinistra – le faccio strada.

Fausto Inciacci scomparve piccolo e tondo com’era in quel buio, ancor prima di scomparire dietro alla porta, mentre Clementina aveva già iniziato a macinare parole, Giovanna si rese conto in fretta che la duchessa era stata educata in maniera egregia alle chiacchiere di convenienza, oltre che a mille altre cose.

Lo studio del barone era una delle stanze più luminose della casa, il padre aveva la fobia di rimanere cieco e visto che passava gran parte del suo tempo in quella stanza, decise di aprirla alla vista del giardino, costruendo una grande vetrata a squarciare il muro.

Duccio fece sedere l’Inciacci sulla poltrona beige con l’impuntura in capitonnè, gli offrì da bere del cognac e gli sedette accanto, poi con la voce più bassa del solito iniziò:

– Le piace il cognac, signor Fausto?

– Sì, moltissimo.

– Lo sa che Gabriele D’annunzio lo ribattezzò arzente?

– No, non lo sapevo. Arzente… questi vip sono stravaganti eh?

– Sì, possiamo dire così, c’è anche da dire che al tempo andava molto l’italianizzazione dei nomi e D’Annunzio patriota e contemporaneo per eccellenza non volle rinunciarvi, pur essendo uomo di mondo. Anche se nutro la convinzione che, in quel nuovo battesimo, vi fosse anche un intento di possesso.

– Scusi eh, ma che c’entra adesso, non mi vorrà mica dire che in questo studio c’è stato D’Annunzio per alzare il prezzo vero? Perché già mi sembra abbastanza alto, anzi vorrei parlare proprio di questo…

– Signor Fausto – lo interruppe con frettolosa violenza – le ho detto questo per spiegarle come le persone siano possessive ed egocentriche, fino al punto di pensare che sia tutto loro, che tutto ruoti intorno a loro.

Siamo tutti un po’ Don Mazzarò e non per la paura che abbiamo di passare, ma per quella che del nostro passaggio non rimanga traccia.

L’Inciacci lo guardava con gli occhi del telespettatore, impassibile in un raro momento di concentrazione, e allora il barone continuò:

– Questa casa ha reso tranquillo il passaggio di molti nella mia casata, sicuri che ai posteri sarebbe rimasta la villa, fulgido esempio della grandezza dei de Lollis. Quello che le sto dicendo è che vendendola, io perdo molto più di una proprietà, questo lei lo comprende?

– Capisco e quindi, qual è la richiesta? – domandò timoroso Fausto scrollando l’orologio al polso.

– Venti milioni.- rispose d’instinto Duccio con la fretta di chi elenca i suoi peccati.

– Venti? Il ragionier Bachis mi aveva detto quindici.

– Il prezzo è cambiato.

– Che margini di trattativa abbiamo?

– Nessuno. O venti o niente.

– Guardi cavaliere.

– Barone.

– Barone…

– Ancora un’altra cosa: questa non dovrà essere utilizzata come seconda casa, spero che ne comprenda le ovvie motivazioni, pena la rescissione del contratto.

– Barone… in realtà non mi sembra una clausola legale. E la casa, vogliamo parlare della casa?! Barone qua c’è da ristrutturare gran parte dell’immobile, lei queste spese me le deve contare.

– La proprietà è la mia, decido io le clausole: a lei accettare o declinare.

– Ah – sospirò forte l’Inciacci – lei mi vuole prendere per il collo caro barone. Va bene, se queste sono le condizioni e non sono trattabili, mi ci lasci pensare.

– Tutto il tempo che vuole.

– Bene – disse alzandosi – allora ci sentiamo presto. E’ stato un vero piacere.

– Le faccio strada.

– No, non si preoccupi.

E Duccio così fece, si adagiò nuovamente sulla poltrona, attento a non muovere quelle pesanti tende impregnate di polvere e lasciò che fosse Clementina ad occuparsi delle pratiche di commiato.

Chiuse gli occhi, sentì gli ultimi saluti, la porta che si chiudeva, Clementina che chiamava i ragazzi e poi i suoi passi che tintinnavano nel corridoio, già sapeva cosa avrebbe detto.

– Allora?- esordì secco.

– Allora cosa Clementina.

– Cosa ti ha detto?

– Che ci penserà.

– Cosa?! Ma se la voleva a tutti i costi?!

– La vuole ancora, ha solo detto che ci deve pensare come è giusto.

– Gli hai messo quelle clausole?

Duccio non rispose.

– Lo sapevo. Solo tu potevi rovinare tutto con quelle maledette clausole.

– Clementina…

E come era apparsa scomparve dietro lo stipite della porta, inghiottita da quel corridoio che la ingurgitò solo per un attimo, per risputarla fuori alla fine. Duccio respirò forte cercando qualcosa di già conosciuto in quell’aria ormai straniera.

Il loro matrimonio si basava su degli equilibri fragili, Clementina era una donna perfetta per un gentiluomo come lui, sempre ordinata, sempre al suo fianco, sempre al suo posto, solo le recenti difficoltà le avevano fatto perdere un po’ del suo aplomb in favore di un’insolita grinta.

A cena i gemelli si fecero trovare a sedere su quei posti alla sinistra del lungo tavolo in mogano, nella sala da pranzo incombeva un passato polveroso e centinaia di termosifoni spenti; la cena si svolse in un silenzio avvolgente come un poncho di lana cotta.

Duccio mangiò in fretta, si alzò guardato a vista dai figli e dopo aver baciato Clementina sulla fronte, si avviò con passo stanco verso la sala del camino.

Quella stanza era una degli ambienti più ampi della villa e l’unica senza porte, queste due qualità ne facevano il catalizzatore della casa, la stanza dove a fine serata, in occasione di cene e feste, si ritrovavano tutti gli invitati seduti sui quattro divani in pelle nera, sorseggiando dai calici dell’angolo bar.

La vetrina dei coltelli da collezione, i trofei di caccia, il set di bicchieri adatti per ogni liquore, tutto esibito in una delicatissima mostra, un precario equilibrio che sembrava non aver mai conosciuto il disordine e dove ogni cosa sembrava esser stata prodotta proprio per stare lì, in quel preciso punto in cui era stata disposta.

Due Monet, un Barbieri e due Sargent, ma nessuna foto di famiglia. Non era quella la stanza, come per i ritratti degli avi, incastonati dentro fastosi abiti da cerimonia e pesanti cornici dorate, che il padre aveva fatto spostare lungo il corridoio di fronte alla sua camera.

Ormai di tutto quel fasto era rimasto poco o niente.

E’ certo che il barone durante la notte spesa immobile in quella stanza avrà posato gli occhi su ogni singolo oggetto rimasto e di ognuno avrà avuto un ricordo che lo trascinò indietro in quel tempo trascorso dove tutto sembrava eterno.

L’abbaiare della muta, l’ebbrezza della posta, il tintinnio di tutti quei brindisi composti, la febbricitante attesa prima dell’inizio di una cena di gala, il sottile odore della legna arsa, di quel camino acceso, del padre che fumava il sigaro in un silenzio severo.

Chissà cosa avrebbe pensato se gli avessero detto che la splendida villa di famiglia stava per finire in mano ad un mercante di stracci con la bocca piena di improperi e le tasche enfie di soldi.

Si sentiva il picconatore di una casata intera e così dopo aver afferrato il collo di cristallo della bottiglia di brandy se ne versò un dito in un bicchiere scelto a caso.

Quando si rese conto che aveva riempito a metà un calice, lo bevve in fretta e lo rimise ancora grondante di liquore fra i tumbler bassi e i flute.

Poi prese uno snifter, vi soffiò dentro con la speranza che il gesto bastasse per pulire il bicchiere dalla polvere, e lo riempì con quel liquore color dell’ambra.

Diede un sorso, uno sguardo al camino e chiuse gli occhi nella speranza che il sapore del brandy e il calore del fuoco lo portassero lontano, in un luogo senza passato, dove poter sfuggire a quel ruolo di picconatore che la storia gli stava destinando.

Il secondo sorso fu così vorace che di brandy nel bicchiere non ne rimase a sufficienza per il terzo e il fuoco sembrava si facesse sempre più caldo. Spalancò gli occhi, riprese con la violenza della fretta il collo della bottiglia, riempì nuovamente il bicchiere e tirò giù l’ennesimo sorso, sempre più vorace, più profondo, come se cercasse in quel brandy un distacco, un medium per un altrove, ma i ricordi sono animali strani, visibili a occhi chiusi come i presagi, fuggono al giorno da gatti randagi per tornare la sera come fedeli cani. Quella notte si affollarono tutti in quella stanza e il barone a occhi chiusi li poteva vedere uno per uno e di ognuno sentirne la voce.

Finì anche quel terzo bicchiere e adesso il camino ardeva come una fornace, tutto sembrava più leggero e il tempo danzava sulle ore lisce come il brandy.

Sentì la stanchezza giungere in un colpo solo, solitamente a quell’ora il barone era già a letto e sebbene gli fosse già capitato altre volte di far tardi in solitudine, mai si era fatto accompagnare da pensieri così taglienti.

Si addormentò.

Sognò i palazzi di periferia, quei grandi alveari di cemento, si vide dentro uno di quegli appartamenti tutti uguali con le pareti troppo fini per poter difendere il pudore, con le finestre una attaccate all’ altra dove gli odori di vite diverse si mischiano. Ebbe un sussulto, uno spasmo muscolare che dalla spalle scese in picchiata verso la schiena rotolando più in giù fino ai piedi.

Si alzò di soprassalto, piantò gli occhi nel fuoco si convinse che forse quello era il suo ruolo, che quella casa lo avesse già cancellato solo per rendere più semplice il tutto.

Si riempì il bicchiere e alzando lo snifter verso il muro dove ancora si vedevano i segni dei quadri appesi, in un brindisi senza tempo, disse:       ” Dopo due secoli, signori, è ora di cambiare aria. A voi.”; poi scolò anche il quarto bicchiere, stavolta in un solo sorso, sprofondando in un sonno scomodo.

La prime luci dell’alba lo trovarono ancora lì, rannicchiato su quella poltrona. Si alzò con una strana ansia addosso, per un attimo venne preso d’assalto dal timore di pentirsi, come se quella scelta notturna avesse già messo in moto una slavina di conseguenze inarrestabili.

Così prese una sedia e la mise in giardino, rivolto verso la casa, era una cosa che faceva spesso, soprattutto da ragazzo.

Era sempre stato un tipo freddoloso, specialmente al mattino quando si svegliava con la pressione che rasentava lo zero. Allora si vestiva di tutto punto, si infilava una vestaglia spessa, prendeva una sedia dalla cucina e la metteva in giardino, di fronte alla casa per sfruttare quel riflesso naturale che produceva il serpentino illuminato dalle prime luci dell’alba.

Clementina lo trovò lì.

– Duccio!

– Buongiorno cara.- rispose senza muoversi.

– Che stai facendo?

– Mi riscaldo.

– Vieni dentro allora!

– No, voglio riscaldarmi al sole.

– Hai dormito tutta la notte sulla poltrona?

– No. – mentì secco Duccio- Ho dormito nella stanza della musica.

– Ma se non c’erano le coperte.

– Le ho messe. – Clementina a forza di fare la madre si era dimenticata di essere anche un’amante e questo Duccio lo sapeva, come sapeva che ogni madre deve essere sempre rassicurata, anche a suon di bugie.

– Dai vieni dentro sto preparando il caffè.

– Gian Filippo e Gian Carlo dormono ancora?

– Si stanno lavando i denti- rispose Clementina da dietro la porta finestra dove si stava riparando dal vento temprato del mattino.

– Non hanno lezione oggi?

– Dicono di no, sono sotto esami.

– Torniamo in città prima di pranzo.

– Va bene, ma adesso vieni dentro.

 

La colazione si svolse nel silenzio più totale. Il barone guardava Gian Filippo alla sua destra, il ragazzo era come catatonico con gli occhi inzuppati nel caffelatte e il corpo stretto in un maglione bianco a collo alto, accanto a lui Gian Carlo scorreva il dito sul suo inseparabile iPad, mentre Clementina faceva avanti e indietro fra la cucina e la sala indecisa sulla marmellata.

Aspettò di essere in macchina, a metà strada fra la villa e la casa e poi esordì secco:

– Ho deciso. La vendiamo, ma solo se l’Inciacci accetterà tutte le condizioni.

Nell’abitacolo color crema della Land Rover calò un silenzio pesante come il tendone di un circo, anche i gemelli capirono che ogni parola avrebbe graffiato quell’aria di cristallo e restarono immobili.

La sera stessa di quel Lunedì arrivò la chiamata dell’Inciacci, il barone fece tutto in fretta, bastarono una settimana per la firma dal notaio e quindici giorni per il trasloco completo.

Inciacci prese posto nella casa alla fine di Dicembre e subito dette inizio alla quarta ristrutturazione nella storia della villa; il primo dei lavori che commissionò fu una piccola modifica alla targa in travertino apposta sulla destra del cancello d’ingresso che adesso recitava in una bella calligrafia rosa:“Villa Giovanna”.

Dopo aver tolto la serra, fece costruire un campo da tennis e uno da calcetto, dette un ordine a quei fiori sparsi per il giardino, allargò la piscina a fagiolo e assunse un’intera famiglia di filippini.

– Cosa pensi di fare con questi cosi sul soffitto?- domandò un giorno l’Inciacci alla moglie mentre indicava Prometeo seminudo.

– Non saprei.- biascicò con la voce rotta da una risatina.

– Nando – cominciò a gridare – Nando!

– Che c’è?

– Vieni qua!

– No devo finire la missione.

– Ma che cazzo dice?- rivolgendosi alla moglie.

– Non..lo..so – mugugnò lei mentre si specchiava per ripassare il rimmel- penso che parli di quei suoi videogames.

– Nando!- urlò Fausto.

– Che c’è!?- fece eco il figlio

– Cosa ne pensi degli affreschi?

– Di che?

Quella discussione terminò lì e non venne ripresa, fu così che, per buona pace del barone, gli affreschi non vennero toccati.

Ristrutturò le camere da letto, i tre bagni, dove vennero aggiunte vasche idromassaggio, box sauna e stanza del sale, la cucina, che venne fornita di uno schermo Lcd da 60 pollici e i due salotti, mentre uno studio venne adibito a sala giochi, nella recondita speranza che Nando potesse avere qualche carta in più da spendersi per fare amicizie.

A salvarsi fu solo la biblioteca, non che l’Inciacci ne facesse uso, ma godeva all’idea delle facce basite che avrebbero fatto i suoi amici

di fronte a tutti quei libri finemente rilegati.

C’era solo una cosa che non riusciva a piegare a suo piacimento: quell’assoluto silenzio in cui la villa sembrava immersa.

Era come se quelle mura fossero talmente alte da inghiottire ogni suono, mentre in giardino il silenzio sembrava portato direttamente dal vento.

Inciacci iniziò a non dormire, abituato com’era al sottile rumore del traffico che trapelava dalla finestra della sua casa in città.

Fu così che dette disposizioni per installare un impianto hi fi in tutta la villa nel tentativo di debellare quel silenzio inquietante, mentre agli alberi in giardino fece appendere centinaia di quei campanellini che si scatenano alla prima brezza di vento, ma fu tutto inutile.

Si affannava in piccoli lavori di giardinaggio, aiutava gli operai, piuttosto imbarazzati, nella mansioni più dure dell’opera di ristrutturazione, ma quei dolci momenti pieni di lavoro non facevano che risaltare il silenzio nel quale sprofondava la casa un attimo dopo l’ultimo colpo di trapano.

Il mite e giulivo Fausto si era trasformato in un rocchetto nevrotica che rimbalzava per tutta casa e quel bombardamento acustico al quale sottopose la famiglia divenne ben presto motivo di feroci discussioni con Giovanna che si vide costretta a far smontare l’impianto e far togliere i campanellini.

In breve tempo quel silenzio tornò ad avvolgerlo come un brivido e il disagio si mescolò alla rabbia di quel neo che deturpava il sogno di una vecchiaia serena.

Passava lunghi pomeriggi distesi sul divano Magestic a cercarsi in testa il rumore del telaio, simbolo di tutta una vita spesa a lavorare, nel tentativo di scacciare quel silenzio posato in tutta la casa.

Il silenzio è un’opportunità per esistere, ma può diventare un buco nero da riempire, un’attesa infinita difficile da sostenere.

Provò a dormire in ciascuna delle dodici camere da letto, tentò con la meditazione e quando sembrò aver trovato la soluzione in un potente sonnifero dovette abbandonarlo in fretta per un’improvvisa forma allergica; si fece consigliare dagli amici e spese chili di denaro fra costosi pareri di medici luminari e lussuose cliniche specializzate, ma non riuscì mai a dominare quel silenzio, passando notti intere con gli occhi inchiodati sul soffitto a cassettoni.

Solo nel pescheto Inciacci trovava pace quando, verso sera, si rifugiava ad ascoltare il fruscio delle foglie, mentre un profumo inebriante lo avvolgeva per intero.

 

 

 

 

 

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