In quel condominio nessuno si conosceva e le poche informazioni che circolavano erano per lo più false o frutto di sommarie ricerche, l’unica cosa certa erano i cognomi, almeno di quelli che avevano avuto il buon cuore di mettere la targhetta sul campanello, estranei al punto che soltanto quando morì venni a sapere come si chiamava il mio vicino.
A Roma era stato un agosto caldissimo e i san pietrini seccati al sole di mezzogiorno continuavano a cuocere le suole in gomme dei giapponesi, ben oltre l’ora del tramonto. Quando mi suonarono alla porta, la signorina del telegiornale stava aggiornando la conta dei caduti in quella che sembrava essere l’estate più calda del secolo, nella quale, per l’ennesimo anno, erano stati superati tutti i record di caldo finora registrati.
Un paramedico vestito con una sgargiante tuta color verde acqua marina, corredata da strisce catarifrangenti, se ne stava ritto come una bandierina del calcio d’angolo con i piedi sullo zerbino.
Enrico Pardini, il mio vicino, era morto, aveva avuto un malore mentre era in casa, aveva chiamato l’ambulanza e aperto la porta, prima di farsi trovare rigido su quel divano a sconto, come una di quelle fodere elastiche che non calzano mai.
Volevano sapere se conoscessi un parente, se avessi magari il numero di qualcuno vicino alla famiglia, ma pur non avendo nulla che potesse essere utile alla causa, non mi feci scappare l’occasione di frugare nella casa del vecchio. Inventai una scusa e sarà stata il tono convinto, la pigrizia del mio interlocutore o le due cose insieme, ma la tattica funzionò e a pochi minuti dalla triste notizia, ero sul parquet di legno grezzo di casa Pardini.
Un ampio salone con un angolo cottura ritagliato alla sinistra della porta d’ingresso, un corridoio stretto che portava ad un’anticamera da cui si accedeva a tre stanze: una camera da letto, un bagno e uno sgabuzzino.
Un odore di polvere si levava dall’enorme tappeto del soggiorno, con una forte nota d’anice esalata da una tazza d’orzo allungato, sopra ad una settimana enigmistica di due mesi prima.
Attesi che lo portassero giù per le scale, fingendo di scartabellare la rubrica accanto al telefono, poi mi infilai nella camera da letto.
Una distesa di scatoloni copriva il pavimento per intero se non fosse stato per una piccola viuzza aperta fra i cartoni per arrivare al letto, anch’esso occupato dagli scatoloni per una buona metà.
Ne toccai un paio per qualche secondo prima di leggere “Goti” sulla scatola più vicina. Goti, come sulla targa appesa alla porta dell’inquilino del terzo piano. Poi vidi “Chiarelli” scritto in stampatello maiuscolo con un pennarello nero, poi “Lanfranchi”, “Guardini” e “Strelli”, tutti scritti con la stessa calligrafia e lo stesso bluastro, tutti inquilini di quel condominio. Iniziai a scartare la prima scatola che trovai a tiro, ma riuscii a fermarmi in tempo, guardai l’etichetta: “Paolesi”, decisi di cercare la mia e iniziai a spostare con cura tutte le altre.
“Villani”, stessa calligrafia, solito bluastro, ero preso dalla smania della curiosità, da una foga talmente accecante che mi dimenticai totalmente di dov’ero e del perché ero lì. Aprii la scatola.
Edoardo Romagnoli