Non ricordo molto della mia adolescenza, ma quando penso all’età delle eruzioni cutanee incontrollate mi appaiono due immagini davanti agli occhi.
La prima. Ricordate l’ora di musica? Quei sessanta minuti in cui cerchi di non sbavarti addosso con il flauto Yamaha? Nonostante nella mia personale scala gerarchica si trovasse un gradino sotto l’ora di educazione fisica e un gradino sopra l’ora di religione, il mio professore di musica è stata una delle poche figure educative per cui ho provato un certo affetto.
Era un uomo buono e appassionato e appena poteva ci portava in giro per le chiese di provincia a suonare un repertorio che svariava da “New York, New York” a “O surdato nnamurato”, sfidando la nostra indisciplina, le mille e una stonature e l’orchite che colpiva con regolarità il nostro pubblico. Una volta si mise in testa che ci avrebbe portato al teatro ‘La Pergola’ di Firenze per assistere al “Barbiere di Siviglia”, passò interi mesi a prepararci, fra la lettura del libretto e il racconto della trama, poi quando arrivò il giorno x ci montò tutti sul treno e ci portò a teatro. Lo ricordo lì, pochi minuti prima dell’inizio, seduto su una poltrona di velluto rosso, noncurante di ciò che avremmo potuto fare, ma sicuro che non lo avremmo fatto. Poi, poco prima che spengessero la luce, mise una mano in tasca e ne emerse con un paio di occhiali da sole che si infilò per toglierli solo alla fine dell’opera. Non dormiva, semplicemente si godeva lo spettacolo, sperando che anche noi avessimo fatto altrettanto, cullato dalla certezza di averci dato tutti gli strumenti adatti per farlo.
La seconda. Ricordo perfettamente il giorno in cui la mia professoressa d’italiano delle medie mi consigliò di iscrivermi al classico. Era uno degli ultimi giorni di scuola, in classe l’aria era calda e umida, intrisa di tutti gli ormoni che trasudavamo senza eccezioni, dalla prima all’ultima fila.
Dopo un lungo discorso consegnò, banco per banco, dei bigliettini dove con molta nonchalance, in qualche ritaglio di tempo, aveva indicato la via più consona lungo la quale ognuno di noi avrebbe dovuto continuare il proprio cammino scolastico.
Quando aprii il mio trovai scritto in un’elegante grafia: “Studi umanistici, liceo classico”. Mi iscrissi allo scientifico poco tempo dopo.
Non è che impazzisi particolarmente per la matematica, anzi, fin dalle elementari, avevo mostrato una scarsa inclinazione all’algebra in tutte le sue declinazioni, ma all’epoca ero più interessato a contrappormi a qualunque cosa mi apparisse come un’istituzione, che pensare seriamente al mio futuro.
Fu così che per sei lunghi anni mi ritrovai a contemplare un 6 rosso accanto alla voce matematica, ma nonostante questo sono sempre stato affascinato dalla materia, non riuscendo comunque a trovare mai la chiave per comprenderne i meccanismi di causa-effetto.
Ecco perché quando ho sentito parlare delle “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli mi sono fiondato nella prima Feltrinelli che ho trovato aperta a Roma, sperando non finisse nella già folta collezione incompiuta delle prime uscite ad un euro comprate in edicola.

Il primo impatto è stato subito positivo, soprattutto perché il libro si presenta come un piccolo pamphlet e questo aumenta esponenzialmente le possibilità di finirlo, poi ho iniziato a leggerlo e ho capito che poteva essere veramente la volta buona.
La prima volta in cui avrei avuto la possibilità di guardare il mondo con gli occhi della matematica, non gli unici possibili, ma sicuramente i più adatti per indagarne gli aspetti fondanti.
Rovelli ci prende per mano e in bilico “(…) sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo”, ci porta alla scoperta della bellezza del mondo, ripercorrendo le principali tappe della rivoluzione che ha scosso la fisica nel secolo XX, dalla teoria della relatività generale fino ai buchi neri, passando per la meccanica quantistica e l’architettura del cosmo.
Ad ogni pagina sorprende non tanto il leggere qualcosa sulla teoria della relatività, ma che in qualche modo si riesca a capirci qualcosa su quella che Lev Landau definì: “La più bella delle teorie”.
La scienza, come la musica ha un suo linguaggio specifico, talvolta ostico da decifrare e gli strumenti adatti per farlo sono il risultato di un duro percorso di apprendistato, ed è forse questo il regalo più grande di Rovelli, offrirci un Bignami sul tutto, dove la parte più faticosa è già stata fatta dall’autore, per lasciare a noi solo la bellezza e l’incanto.
La storia della scienza assomiglia a una maratona dove l’uomo continua a passarsi un testimone, non perchè sia l’assoluta validità, ma perché, almeno momentaneamente, è ciò che meglio riesce a descrivere e spiegare la fenomenologia di ciò che ci circonda.
Le sette lezioni trattano argomenti immensi, ma scorrono come una passeggiata spaziale.
La scienza: una passeggiata spaziale.

Il 18 marzo del 1965 Alexei Leonov, durante la missione spaziale Voskhod 2, passò dodici minuti sospeso nel bel mezzo dello spazio prima di fare rientro nella navicella, concludendo con successo quella che verrà ricordata come la prima passeggiata spaziale nella storia dell’uomo. Durante la sua permanenza fuori dalla navicella la tuta di Alexei si gonfió in maniera anomala, complicando le operazioni di rientro, tanto da costringere l’astronauta russo a svitare una valvola della tuta per sgonfiarla, potendo così rientrare.
Oggi le passeggiate spaziali sono all’ordine del giorno, gli austronauti passano ore a penzoloni nello spazio a riparare le stazioni spaziali o gironzolando con i jet pack all’azoto stile Clooney in Gravity, ma quella prima volta doveva essere diversa.
L’eccitazione mista alla paura che deve aver provato Leonov prima di uscire dallo shuttle, la gioia primordiale mentre guardava la terra da quel raro punto di vista e il panico finale per l’imprevisto. Un esempio mirabile di ciò che rappresenta la storia della scienza che “è una storia di tentativi, intuizioni e inciampi, di clamorosi balzi in avanti e plateali dietrofront.”
So (ancora e mai come adesso) di non sapere.

Durante la lettura delle lezioni emerge con veemenza un altro dato: la coscienza di quanto ignoriamo, roba che la doctae ignorantia di Socrate sbiancherebbe a confronto.
Talmente ignoranti che siamo stati costretti a denominare materia oscura, quel 90% di materia che compone l’Universo e che non riusciamo a osservare.
E non solo siamo all’oscuro di così tante cose da non saperle nemmeno contare, ma abbiamo anche la sfortuna di essere i primi nella storia dell’umanità ad esserne così coscienti.
Coscienti che ciò che sappiamo potrebbe non essere del tutto vero, che un concetto come il tempo, su cui basiamo una buona parte dei nostri metodi di misura, è un concetto relativo, e che se andiamo veramente a misurarlo, scopriamo che scorre più veloce in alto e più lento in basso, ma anche il concetto di alto e basso non è un concetto assoluto, ma solo terrestre.
Non sappiamo, ma la scienza invece di inventare racconti, prova a seguire le tracce per trovare qualcosa, “(…)nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia”.
Sappiamo che: elettroni, quarks, fotoni, gluoni, neutrini e bosone di Higgs sono le particelle elementari che compongono tutto ciò che ci circonda, ma non sappiamo se sono solo queste o se ve ne siano delle altre.
Sappiamo che la relatività generale e la meccanica quantistica sono “le gemme del Novecento” del sapere scientifico, sappiamo che funzionano, descrivono perfettamente la realtà circostante e che hanno anticipato molti fenomeni, ma sappiamo anche che sono in piena contraddizione tra di loro e ignoriamo come sostituirle.
Sappiamo che un buco nero si forma quando una stella finisce di bruciare idrogeno e inizia a collassare al suo interno, schiacciata dal suo stesso peso.

Sappiamo che così facendo la materia deve essere diventata sempre più densa fino a diventare una stella di Planck, uno stadio nel quale l’intera materia del sole è concentrata in un atomo, sappiamo che, “(…)per reazione, la meccanica quantistica deve aver generato una pressione contraria, capace di controbilanciarne il peso”, ma sappiamo anche che una stella di Plank non è stabile e che, una volta compressa al massimo, rimbalza, fino a riespandersi di nuovo.
Però non abbiamo mai visto l’esplosione di un buco nero, non sappiamo guardarci dentro e allora ipotizziamo.
Ipotizziamo che nell’Universo potrebbero non essersi formati abbastanza buchi neri per poterne vedere qualcuno esplodere, ipotizziamo che l’ultima esplosione in questo senso sia stata il Big Bang e ipotizziamo che, con buone probabilità, la prossima esplosione potrebbe spazzare via tutto ciò che conosciamo.
Ipotizziamo che la vita sulla Terra non sarebbe che un intervallo di tempo tra un Big Bang e un altro e che questo universo sia nato dal “rimbalzo di una fase precedente, passando attraverso una fase intermedia senza spazio e senza tempo.”
Ipotizziamo perchè il cammino del sapere è lungo e si ignora se esista o meno un traguardo e tanto meno dove sia, ma sappiamo con certezza che solo stando fermi non lo scopriremo mai.
Da questo libro se ne esce felicemente dubbiosi, dopo aver visto che quaggiù, stretti in un angolo, aggrappati ad uno dei tanti pianeti che popolano un universo in espansione, elastico e costellato di galassie, l’uomo appare ancora più piccolo di quanto si possa immaginare e la razza umana sembra solo una delle tante forme che la vita può assumere nelle sue infinite possibilità di combinazioni.
Di fronte a tutto questo l’unica cosa saggia da fare sembra quella di prepararsi, studiare, acquisire gli strumenti per riuscire così ad apprezzare tutto ciò che fin qui abbiamo scoperto, continuare a farsi guidare dalla curiosità, guardando sereni al futuro con un bel paio di occhiali da sole sul naso.
Edoardo Romagnoli