Continuiamo a portare intere scolaresche nei campi di sterminio, insegniamo loro la storia di Pol Pot, di Mao, Hitler e Ceausescu, incensiamo la poesia di Martin Nicole ‘Prima vennero’ e poi nei telegiornali continuiamo a distinguere fra morti e morti.
“C’erano anche due italiani”, “Non c’erano connazionali a bordo dell’aereo disperso”, “300 ostaggi, per fortuna nessun italiano”, “Nell’incendio dove sono morte 87 persone, c’era anche un italiano” o ancora “Attentato dinamitardo a Tripoli, una coppia di Italiani fra le vittime?”. Quante volte avete sentito queste espressioni? Probabilmente spesso e non solo di recente. La cronaca delle guerre, degli incidenti aerei e dei naufragi è storia di morti diversi, appartenenti a paesi diversi, pianti e compianti da popoli diversi, celebrati o condannati da media diversi, gli stessi che li nominano uno per uno, raggruppando gli altri in un numero utile solamente ad aggravare ancora di più il senso della tragedia che ha coinvolto i connazionali.
In questa rappresentazione la morte dei nostri assume un ruolo così rilevante da oscurare quella degli altri. Nella celebrazione del nostro lutto non si allontana l’altro né tantomeno lo si avvicina, semplicemente non lo si considera, ma perché? Perché dovrei piangere sentirmi vicino ad uno sconosciuto ed ignorarne un altro. Sconosciuto vale sconosciuto e se il centro della questione fosse il valore della vita in sé, questo concetto varrebbe ancor di più, davvero è un fatto di identità?
Forse non ci viene così naturale immedesimarci in altre vite? Veramente è così difficile immaginarsi la vita di una donna di Monaco, di una famiglia di Perth, di quella coppia di anziani che vivono a Shangai, di quella madre di Nairobi o dello studente di Denver? E sopratutto davvero vale la pena lo sforzo di immedesimazione? E’un passaggio necessario?
Quando un tragico evento luttuoso non coinvolge alcun connazionale, i media tendono comunque a mettere in risalto la scomparsa delle persone coinvolte più vicine ai loro spettatori. Facciamo un esempio, mettiamo che un traghetto abbia preso fuoco nel mar delle Andamane e che nell’incidente siano morte 80 persone, delle quali 30 cinesi, 46 thailandesi, 2 cambogiani e una coppia di francesi. Il racconto dei media si concentrerà sulla coppia europea, vi faranno entrare nelle loro case, ve li faranno conoscere attraverso il racconto dei familiari e mentre vi elencheranno uno per uno gli ultimi concerti che sono andati a vedere, corredati di eventuali foto e video, vi renderete conto che ancora non siete riusciti a sapere nemmeno il nome di una sola delle altre 78 persone coinvolte. Sapete tutto sui quei due sconosciuti francesi, ma ancora nessuna notizia del vostro amico cinese in visita a Phi Phi island.

Una somiglianza che non ha niente a che fare con l’appiattimento culturale o l’omologazione ad un modello prestabilito, ma un esercizio utile per iniziare a trasformare l’altro in mio simile, qualcuno che condivide con noi il mistero della vita.
Il ruolo dei media non è marginale in questo perchè la narrazione dei fatti fornisce, molto spesso, la chiave di lettura degli eventi.
Dare alla morte eguale dignità, vuol dire darla anche alla vita, forse il primo passo per evitare di chiudersi in un guscio condannato ad aprirsi, piangendo solo i nostri morti o peggio ancora esultando alla morte di chicchessia.
Edoardo Romagnoli