Nelle mie domeniche da turista in città sono finito al 106 di via Ostiense, qui il 30 giugno del 1912 l’allora sindaco di Roma Ernesto Nathan inaugurò la centrale termoelettrica Montemartini.
La centrale doveva fornire energia elettrica alla città ed era il primo impianto pubblico di proprietà dell’ Azienda elettrica municipale, l’attuale Acea; venne dedicata a Giovanni Montemartini teorico delle municipalizzazioni delle aziende di servizi di interesse pubblico e assessore al tecnologico, scomparso durante una seduta del consiglio comunale del 1913.

Dopo mezzo secolo di attività l’impianto divenne obsoleto e la produzione di energia elettrica fu definitivamente interrotta nel 1963 e la centrale subì una decadenza che durò per oltre venti anni fino a quando la dirigenza non decise di restaurare il corpo centrale dell’edificio e di reinserire alcuni macchinari (che vennero forniti dall’azienda metalmeccanica di Franco Tosi). L’intervento di recupero fu uno dei primi casi di salvaguardia dell’archeologia industriale della città.
Fino a qui nulla di speciale, ma sopratutto niente che spieghi la presenza di statue romane all’interno della centrale, perchè come succede alle persone anche le storie di alcuni edifici si intrecciano per dare vita ad altro. (vedi il roseto di Roma)
Musei Capitolini, Campidoglio 1995. Per permettere i lavori di ristrutturazione la galleria lapidaria e diversi settori del palazzo dei Conservatori dovettero essere chiusi al pubblico e molte delle statue presenti all’interno vennero spostate e alcune di queste vennero portate alla Centrale Montemartini come sistemazione temporanea.
Dopo dieci anni i lavori si concludono eppure molte delle statue rimarranno alla centrale dando vita ad uno degli esperimenti museali più interessanti che si possano ammirare nella Capitale.
La lettura data della mostra “Macchine e dei” non è delle più azzeccate, perché si focalizza su un concetto troppo semplicistico: il dualismo fra antico e moderno, ma se le statue possono anche essere catalogate nell’antico, quel tipo di archeologia industriale, quelle macchine non possono certo rappresentare il moderno.
Qualora lo rappresentassero non farebbero altro che rappresentarlo per contrapposizione, ma a ben vedere si dovrebbe parlare di due contemporaneità a confronto e per assurdo in questo confronto gli antichi sembrano più i macchinari industriali che le statue, nonostante siano così ben conservate e così ben oleati che sembrano poter ripartire da un momento all’altro.
Il fatto è che il progresso tecnologico, incluso quello tecnico-industriale, incede con falcate così ampie da saltare il passato, passando direttamente dal presente al passato remoto; in parole povere: in un’epoca in cui ogni sei mesi esce un nuovo ritrovato della scienza, un 3310 può apparire certamente più arcaico del Pothos di Skopas.
Per non disorientare nessuno evitiamo di scambiare le etichette ‘antico’ e ‘moderno’ fra le macchine e gli dei, anche perché potrebbe sembrare un esercizio di stile fine a se stesso, ma ciò non toglie che queste due categorie rimangano errate e che se proprio dovessimo etichettare questi due mondi a confronto sarebbe più opportuno parlare di contemporaneità a confronto che specchiandosi l’una nell’altra ritrovano il filo di tutta una storia.
Edoardo Romagnoli