2016. Savoir faire, si fa per dire

Questo marzo mi ha suggerito una riflessione banale: il 2016 sarà la pietra miliare sul viale della decadenza dell’umanità.

E’ indiscutibile che il 2016 è iniziato come peggio non poteva, macinando ad un ritmo forsennato personaggi di cui sentirò la mancanza e altri come Glenn Frey, Alain Rickman e Silvana Pampanini che, con tutto il rispetto, avevano già sparato i colpi migliori ormai da tempo.

Il fatto è che non capisco niente di musica, ho visto tutti gli Harry Potter e Silvana Pampanini non mi ha mai attizzato, avendola conosciuta ormai ultra settantenne, mentre sono parecchio preoccupato della facilità con la quale ci beviamo litri di cazzate che ogni giorno ci condizionano. La perdita di personaggi come Umberto Eco ci impoverisce di un bel cervello pensante, di quelli che in poco tempo sanno scindere le cose serie dalle cazzate, risparmiandoci un sacco di tempo.

Eco è stato un po’ come Max Pezzalli e Giulio Andreotti, in qualche modo tutti ci hanno avuto a che fare anche quelli che non hanno mai dovuto scrivere la tesi di laurea con il suo “Come si fa una tesi di laurea” (1977), perché Eco ha scritto su tutto e per tutto anche per la televisione. E adesso che siamo orfani di quei pensieri e della mente che li formulava sarà nella normalità delle cose rituffarsi in tutte quelle che ci eravamo lasciati alle spalle per continuare a guardare al di là del nostro naso.

Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: “Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?” Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni.

Allo stupore di Critone ho chiarito. “Vedi,” gli ho detto, “come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.

Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?”

Critone mi ha allora domandato: “Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?” Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.

Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l’anellino all’orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.

Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media, le affermazioni degli artisti sicuri di sé, gli apoftegmi dei politici a ruota libera, i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte.

Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione, ti ostinerai a pensare che qualcuno dica cose sensate, che quel libro sia migliore di altri, che quel capopopolo voglia davvero il bene comune.
E’ naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena (anzi, è splendido) morire.

Critone mi ha allora detto: “Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione”. “Vedi”, gli ho detto, “sei già sulla buona strada.”

Umberto Eco, pubblicata sull’Espresso il 12 giugno 1997

Quindi se i calcoli non mi ingannano il professore ha ritenuto che il 2016 fosse l’anno migliore per andarsene, quello con la più alta concentrazione di coglioni in relazione alla sua crescita, forse anche incoraggiato da tutti quelli che la rete ha fatto emergere dalle tastiere. Però Eco non è che fosse Eco da quest’anno e nemmeno dieci anni fa, quindi perché ha scelto proprio il 2016?

Questa specie di profezia avverata mi ha tenuto in ansia per un paio di settimane, anche perché questo non è che un fattore di tutto il quadro e il pensiero di tutti i cervelli fuggiti all’estero non facevano che aumentare l’ansia e il senso di inevitabile, tipo “Melancholia” visto in un cinema di provincia.

Cercavo di curare questo senso di accerchiamento e sfiducia verso l’umanità quando mi sono imbattuto in una pubblicità di un corso di francese e sarà per la concorrenza nel mercato del lavoro o gli ultimi colpi di quell’io romantico che sta sparendo, era da un po’ di tempo che covavo un’insana voglia di imparare il francese.

Dopo un rapido colloquio, dove mi sono fatto sfilare più di quanto avrei speso andando a fare il nullafacente in un monolocale in centro a Parigi, mi sono iscritto ad un corso base di 150 ore.

Viste le spese iniziale, ma sopratutto per non rompere una tradizione liceale, mi sono cercato tutti libri di seconda mano anche perché da quando il mondo è mondo ai miei occhi il libro di seconda mano ha i suoi discreti vantaggi: è meno costoso e già precompilato.

E così ho comprato il mio doppio volume di Savoir Faire, Savoir Dire livello A1/A2 B1/B2, alla modica cifra di 43 euro, risparmiando ben 20 euro sul prezzo di listino. Ero talmente soddisfatto che decisi di cancellare tutti gli esercizi, confidando nel fatto che l’ex proprietario non fosse andato oltre il primo capitolo e che dopo un tardivo ripensamento avesse rivenduto il libro praticamente intonso.

Non saprei dire se era un lui o una lei, ma dalla scrittura direi un lui, il fatto è che chiunque avesse avuto in mano quei libri prima di me aveva visto bene non solo di svolgere tutti gli esercizi dal primo della prima pagina del primo volume all’ultimo dell’ultima pagina del secondo volume, ma si era sentito in dovere di riempire anche le tre pagine vuote lasciate per le annotazioni con tre diverse presentazioni: una informale, una formale e una in forma di mail; un maniaco che se solo avesse potuto avrebbe scritto anche sul cd attaccato sul retro di copertina. Mi stavo ancora chiedendo se avessi realmente risparmiato o no quei venti euro dopo aver passato quasi due ore a cancellare esercizi lanciando improperi verso il popolo transalpino quando mi sono imbattuto nell’unica scritta che avevo tralasciato, in prima pagina.

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La calligrafia è quella che è, ma se lasciamo da parte la prima frase, si legge abbastanza chiaramente: “Evitare di far trovare gli immigrati meglio che nel loro paese”, un pensiero talmente ben comunicato da far diventare irrilevante l’introduzione (che potrebbe sembrare una cosa tipo: 80 parole o Io, non la i in corsivo barocco, parole; insomma l’introduzione non mi è chiarissima, ma non ci lavorerò per scoprirlo).

Anche se la voglia è smisurata non userò questa frase per iniziare un pippone sul multiculturalismo, sull’importanza del confronto con l’altro e la necessità dell’accoglienza perché non avrei nient’altro che un’opinione personale costruita senza dati tecnici e una vera conoscenza della situazione, insomma una di quei bei discorsi buoni per convincere un amico, ma che un qualunque Farage mi potrebbe smontare in due secondi, anche se la differenza fra me e il mio immaginario Nigel Farage è che se potesse provarmi che ha ragione lui mi troverebbe il giorno dopo a sgambettare profughi nei campi ungheresi.

Però due parole le vorrei dire. Mettiamo il caso che sia solo una boutade, uno che l’abbia scritto così per scrivere, mettiamo che sia l’inizio di uno scritto contro le ideologie xenofobe e l’inutilità dell’odio verso il diverso o ancora uno stralcio di un discorso ascoltato in qualche sala d’aspetto che un volontario Amref ha scritto sul suo libro di francese prima di partire in missione, insomma non importa chi lo abbia scritto con tutte le eccezioni del caso perché non esclude il fatto che siano in molti a pensarla così, anche se l’autore non fosse tra questi.

Sapere se  l’autore di questa frase la pensi o meno così è difficile, al limite dell’impossibile, ma al contrario è facile provare, la politica nostrana è piena di esempi, che sono tanti coloro che sarebbero pronti a sottoscriverla. Non è una frase nuova, si sente dire molto spesso, ma ritrovarmela scritta lì mi ha sorpreso forse per l’ironia insita nel trovarmela proprio in un libro per imparare una lingua straniera e così l’ho fotografata prima di cancellarla, per evitare il rischio che qualcuno mi scambiasse per uno xenofobo.

Me la sono guardata e riguardata nei giorni a seguire e dopo aver finito di immaginare il possibile identikit dell’autore ho iniziato a riflettere sul quell’infinito: evitare. Quasi fosse un comando generale, indefinito, per tutti, un monito non tanto agli stranieri quanto agli italiani. Il concetto più o meno suona come:

EVITIAMO DI FAR VIVERE GLI STRANIERI MEGLIO CHE NEL LORO PAESE

Uno slogan che se applicato da tutti gli italiani ariani, un concetto ancora tutto da definire, e accompagnato dalla costruzione di qualche ghetto, in pochi anni, farebbe sparire completamente il fenomeno migratorio con l’unica controindicazione di dover bombardare ogni tanto alcune città, in modo che nessuno, ma proprio nessuno da Aleppo a Mogadiscio possa dire che in Italia si sta meglio.

Visto da una certa prospettiva potrebbe anche sembrare un inno positivo al nazionalismo degno della Corea del Nord, un motto basato sulla ferma convinzione che i connazionali non si troveranno mai ad emigrare senza dover subire le conseguenze dei propri auspici.

Insomma sembra una di quelle frasi che si sentono sempre più spesso sia nei bar, sia sui palchi, sopratutto dietro l’anonimato della tastiera, un nonsenso che fa più proseliti della chiesa di Scientology.

Esattamente quei messaggi coglioni, scritti da coglioni contro cui la Pampanini non ci avrebbe potuto fare niente, ma che Umbertone avrebbe smascherato subito evitandoci magari di trovarcelo scritto sul libro di francese, nel bel mezzo di un periodo di sfiducia verso il genere umano.

Edoardo Romagnoli

 

 

 

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