Gomorra

SINOSSI PER CHI NON HA TEMPO DI LEGGERE

Per negare che la seconda stagione di Gomorra sia stata meno avvincente della prima bisogna avere un certo culto per i tempi morti o essere degli appassionati amanti del cinema francese. Un secondo capitolo lento e prevedibile, fatta eccezione per l’uccisione di Salvatore Conte e il gran finale dove rimaneva da capire se oltre a Don Pietro dovesse morire Ciro o Genny.

Il neo più grande sono stati i membri dell’Alleanza, non tanto per una questione di credibilità, quanto per la quantità. Il personaggio di Scianel e il mondo invaso di fumo di sigaretta e bische clandestine, era credibile, ben costruito, immediatamente riconoscibile e così quello di O Track e i ragazzi del Vicolo, ma oltre loro pochi altri; persino di Malammore sappiamo poco o niente.

Questo però non toglie niente ad una serie che ha fatto registrare numeri incredibili, ha puntato i riflettori su un tema mai trattato abbastanza, scatenando un dibattito di una tale vivacità da renderlo quasi estraneo ad un prodotto televisivo. Gomorra ha fatto discutere creando un dibattito su di sé che non scatenò neanche la nona ora di Cattelan o il rigore su Ronaldo in quel famoso Inter – Juve del 26 aprile 1998. Il livello di coinvolgimento con cui è stata seguita la serie ha avuto dei picchi di pura follia e le minacce a Fabio De Caro ne danno tutta la misura.

Tante le critiche mosse. Una su tutte: l’esempio che dà ai giovani spettatori. In linea generale ormai dovremmo aver capito che le varie deviazioni psicologiche che ha subito chi dovesse, una volta terminata la puntata, sentire l’esigenza di mettere in piedi un suo clan direi che non possono essere attribuiti alla serie.

Quale esempio dovrebbe dare una narrazione televisiva? I Simpson sono anni che non dando il buon esempio regalano spunti di riflessione d’alta scuola, di fiction sulla polizia ne avranno fatte a centinaia e non mi sembra ci sia un incremento di richieste per entrare a far parte della P. di S., per i buoni esempi ci sono già Nonno Libero e Don Matteo, direi che bastano avanzando.

Ai ragazzi Gomorra ha mostrato frame dopo frame come terminano, solitamente, le carriere dei mafiosi: uccisi nei modi più creativi o in un carcere a vita. Perché è ovvio, anche se non ci dovesse essere la terza serie, che fine faranno sia Genny, sia Ciro, come sappiamo che verrebbero subito rimpiazzati da altri, molto più giovani, ma di questo parleremo alla fine.

Gomorra non ha dato il buon esempio perché non deve dare un esempio, come non lo dovrebbe dare nessuna opera, sta a chi guarda, come a chi legge o chi ascolta il compito di trovare un senso, di maneggiare i contenuti e non può essere premura di chi quell’opera ha creato. E il ruolo marginale che occupano nella serie gli effetti disastrosi che le mafie originano? Dalle vittime innocenti ai territori deturpati?

Una domanda che chiama un’altra domanda: ma al camorrista interessa qualcosa? No. E allora se Gomorra si occupa di una guerra fra bande da un punto di vista interno al sistema, facendoci vedere la realtà con gli occhi dei capi e dei sodali di quelle bande, perché se ne sarebbe dovuto occupare?

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PREMESSA NECESSARIA PER L’AUTORE, MA SKIPPABILE DAL LETTORE

La storia delle mafie in questo Paese è storia antica e complessa e come tale si è stratificata e sedimentandosi è diventata una montagna,”una montagna di merda”, ma pur sempre una montagna, difficile da esplorare, figuriamoci da scalare. Non una montagna dalla pietra dura, ma di conchiglie, alghe e coralli che grazie al tempo e alla pressione litostatica si è fatta roccia, la dolomia, che rende forti le pareti delle Dolomiti. Non un insieme di Robocop, ma di uomini che il vincolo, come la pressione litostatica, rende forti, un unicum difficile da crepare, quasi impossibile da scindere.

La leggenda vuole che a regalarci non una, ma ben tre diverse varietà di criminalità organizzata furono dei cavalieri spagnoli: Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che come recita la nuova enciclopedia del tempo “in tempi lontani per vendicare l’onore della sorella uccidono un uomo e per questo vengono condannati a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di carcere nell’Isola di Favignana. Al termine del periodo di detenzione maturarono quelle regole di onore e omertà che costituiscono il codice della “società” e contraddistingueranno le future organizzazioni criminali mafiose italiane e si dividono: Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la ‘ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.”

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La storia ci racconta di uno Stato nello stato di cui siamo venuti a conoscenza troppo tardi, un sistema con i suoi codici, le sue regole, che si era saputo insediare in quello spazio lasciato vuoto dalle istituzioni, autoproclamandosi giudice, assistente sociale e datore di lavoro. Le organizzazione criminali hanno saputo offrire opportunità lì dove lo stato era assente, alternando al terrore scampoli di un futuro a breve termine, le scarpe di Achille Lauro e il terrore dei corleonesi, i favori di Cutolo e le stragi dei casalesi, i periodi di apparente calma e le mattanze come il bastone e la carota di un tiranno silenzioso, ma onnipresente. Una realtà che viveva un momento di transizione e questo ha reso la prima fotografia che abbiamo scattato, per una grande parte, obsoleta.

Le organizzazioni criminali hanno superato periodi difficili e periodi di prosperità, dove il problema non era far soldi, ma come riciclarli, dove la politica non era più da corteggiare, ma un questuante a servizio, un periodo in cui Cosanostra arrivò perfino a dichiarare guerra allo stato, mettendo bombe e uccidendo tutti quegli uomini a cui avevamo delegato la “guerra alla mafia”, mettendoli su un piedistallo perché altri potessero prendere meglio la mira. Si sono espanse all’estero, i Casalesi facevano affari in: Polonia, Ungheria, Germania, Inghilterra, Francia, Santo Domingo, Kenya, Venezuela, Scozia, Brasile, Svizzera e Bulgaria, nonostante tutte le organizzazioni criminali siano spesso impegnate in una perenne lotta intestina. Basti pensare alle celebri quanto sanguinose faide fra i clan Nuvoletta – Gionta contro i clan Bardellino – Alfieri, una volta arrestato Cutolo e iniziato il declino della NCO. Una faida che vide coinvolti anche i casalesi, in lotta contro la NCO e il clan Nuvoletta, che iniziarono una guerra contro i Bardellino che portò Mario Iovine ad uccidere Antonio Bardellino, il 26 maggio del 1988, a Armação dos Búzios in Brasile. Senza dimenticare la mattanza di Palermo o, sempre rimanendo in ambito camorristico, la lotta fra gli Scissionisti di Secondigliano e il clan Di Lauro che va avanti dal 2004.

La cronaca ci racconta ogni giorno che le mafie si sono sapute evolvere, trovando nuovi equilibri, anche a costo di creare sanguinose guerre, hanno trovate nuove rotte ai propri traffici, nuovi interlocutori, hanno guadagnato cifre spaventose che gli hanno permesso di ribaltare il rapporto che avevano con le istituzioni. Hanno continuato ad emigrare verso l’estero, hanno imparato le lingue e frequentato le migliori università per diventare fior fior di professionisti, gli stessi che i loro padri pagavano e che continuano a pagare. Hanno pervaso ogni ambito dal commercio della droga alle estorsioni, senza disdegnare i proventi ben più modesti della vendita del pane la domenica, hanno rilevato bar, ristoranti, hotel, palestre, aziende di ogni tipo e tutto ciò che permetteva di riciclare un po’ di soldi; nominando teste di legno come soci e nullatenenti come prestanome. Sono persino riusciti a trovare il modo di guadagnare 5 milioni di euro l’anno con le buste di plastica.

Parliamoci chiaro la criminalità organizzata non ha mai avuto un codice etico e chi chiama i mafiosi “uomini d’onore” non ha capito chi sono i mafiosi o cosa è l’onore. Però Tommaso Buscetta, durante il Maxi processo del 1986, denunciò in qualche modo un decadimento valoriale all’interno di Cosanostra, il tradimento di un codice che non avrebbe mai permesso di uccidere donne e bambini, di spacciare droga nei territori controllati o di inquinare con rifiuti tossici i terreni coltivabili.

Facciamo ancora chiarezza su questo punto. Quando parliamo di codice etico parliamo di un insieme di regole dalla logica morale contraddittoria, che non avrebbe mai permesso l’uccisione di un bambino di dodici anni come Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca dopo 779 giorni di prigionia, colpevole di essere il figlio del pentito Santino Di Matteo. Eppure, sempre lo stesso codice, non avrebbe impedito, se invece di essere ‘ndranghetisti fossero stati mafiosi, a Gigi La Macchia, detto Carne di porco, Ciccio Pellaza, Francis Caiello, detto “u Spice”, Simone Marcoletti, “u dutturi”, Giampaolo Fiume e Demetrio De Pasquale di giocare a pallone, nella piazza di San Luca, con la testa mozzata di Sebastiano Corrello, rampollo del clan avversario dei De Pasquale.

Un cambio di rotta diventato norma con l’ascesa dei corleonesi di Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano, anche se quest’ultimo capì da subito l’importanza di riportare la situazione alla normalità dopo il periodo stragista culminato con la oramai celebre trattativa; che rimane una delle pagine più vergognose delle tante scritte in questo Paese.

E non è un caso se il predominio, che era un tempo di Cosanostra, adesso sia passato nelle mani della ndrangheta, l’unica che è riuscita a tenere fede alle proprie regole, a quei codici di affiliazione familistica che l’hanno resa quasi immune dalle defezioni.

La storia della criminalità organizzata in questo paese è storia antica e complessa che non si sviluppa su un percorso lineare, ma attraverso vicoli e stradine bianche di campagna, nascosta sotto gli occhi di tutti; ed è per questo che la sua rappresentazione è un’operazione difficile oltre che, in caso di un esito negativo, dannosa.

GOMORRA

“Il titolo della serie è Gomorra e non Napoli” questo è il punto e non è un caso se a pronunciare questa frase sia stato Fortunato Cierlino e da qui partiamo. E’ sottinteso il fatto che nessuno volesse rappresentare Napoli e nemmeno uno dei suoi tanti volti, perché Gomorra non parla di Napoli e non tratta di camorra, ma di una storia di camorra, un frammento di un mosaico da cattedrale, sconfinato e complesso. Gomorra ci racconta una storia, una singola, scelta e raccontata nel suo particolare, la lotta fra due clan per il controllo del territorio, la storia di due amici, due vite che si muovono su un fondale che nessuno dei due ha scelto, come spesso accade quando non si hanno altre opportunità. Non vuole parlare di Napoli e non vuole trattare della camorra e di tutte le sue sfaccettature, i suoi effetti disastrosi sulla società, i suoi legami con la politica. No. E se proprio cerchiamo un esempio, una morale non guardiamo alla rappresentazione, ma al reale che si nasconde nel backstage e ci racconta una storia di uomini e donne di talento che sono riusciti a creare un universo credibile, grazie ad un lavoro coordinato e di qualità.

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Non è un caso che la serie sia ambientata sopratutto fra Secondigliano e Scampia, se si fa eccezione per le fugaci puntate a Roma, Trieste, Colonia o in Honduras, perché è della presa di quelle piazze di spaccio di Secondigliano di cui si parla, di quelle bande in quei territori, di Ciro di Genny e di suo padre.

Gomorra ci racconta una storia piccola sussurrandoci all’orecchio di una realtà universale che impartisce ordini nel mondo dal salotto di casa nostra, punta una luce su un tema di cui si sente parlare sempre poco e sempre dalle solite bocche, di cui abbiamo una fotografia vecchissima e che una volta finita la fiction, continuerà ad esistere e coesistere con i suoi spettatori.

Edoardo Romagnoli

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