Ci sono storie che una volta afferrate per il ciuffo escono fuori tutte intere come carote, talmente belle che non si sente neanche il bisogno di soffiare via la terra per pulirle.
Una di queste ebbe inizio 54 anni fa, quando una delle grandi potenze mondiali si presentò in Italia per carpire i segreti di un prodotto dell’ingegneria italiana destinato a dominare il mondo. No, non era il computer dell’Olivetti o una delle ultime pistole Beretta, questa è la storia di un’auto italiana che fece innamorare la parte est del globo, un vanto non solo dell’ industria automobilistica italiana, ma del genio italico riconosciuto in tutto il mondo.
Questa è la storia della Fiat Zigulì.

Siamo all’inizio degli anni Sessanta, in piena guerra fredda, John Fitzgerald Kennedy è il 35esimo presidente degli Stati Uniti, è in carica da un solo anno e nulla fa presagire che il suo sarà uno dei mandati più brevi della storia presidenziale americana, dall’altra parte dell’Atlantico il primo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica è Nikita Chruscev che passerà alla storia come il destalinizzatore; celebre il “Rapporto segreto”, un discorso, di 4 ore, tenuto nell’aprile del 1956 al XX° congresso del Pcus, in cui denunciò i crimini di Stalin.
L’Unione sovietica è un paese di 243 milioni di abitanti sparsi su un sesto delle terre emerse, un popolo di popoli, dove più di cento diverse nazionalità differenti tra loro per cultura, origine e caratteristiche fisiche, vivono, seguendo undici fusi orari differenti, sotto un’unica bandiera. Il bisogno di automobili è diventato una necessità per accorciare le distanze in mancanza di servizi pubblici, uno strumento di progresso più che un simbolo di ricchezza. E allora che si fa? Si va dagli italiani a imparare come costruire automobili, si va alla Fiat, anche perché a Mosca nel 1962 durante l’esposizione italiana, era stato presentato un modello di stabilimento automobilistico che poteva produrre 240 vetture al giorno molto apprezzato dai sovietici.
Nel 1966 l’accordo per la costruzione di un impianto automobilistico in Russia venne siglato da Vittorio Valletta, presidente Fiat, e Alexander Taravo, il ministro sovietico per la produzione industriale. Sottoscritto il protocollo di collaborazione e firmato l’accordo generale, una delegazione di tecnici russi fu inviata a Torino.
I russi scelsero la Fiat 124, quello era il modello di auto da importare, la base su cui avrebbero costruito la loro auto del popolo. Tanti i motivi che fecero innamorare i sovietici della 124, ma potremmo riassumerli nella sostanza a tre:
- il prezzo, la macchina non sarebbe costata più di 3 mila euro;
- la versatilità, la 124 russa aveva un telaio più alto dal terreno e sospensioni più adatte alle strade sovietiche;
- la semplicità meccanica, un pallino dei sovietici, che non contenti semplificheranno ancor di più le componenti meccaniche della 124;
Non dimentichiamoci che i russi sono i genitori del Sojuz, la navicella spaziale più analogica che c’è, l’esempio concreto della poca fiducia che i russi ripongono nel digitale, famoso il sistema del pupazzetto con cui gli astronauti si assicuravano di essere arrivati in orbita. In pratica, mentre nello Space Shuttle era tutto affidato ad un computer che segnalava l’assenza di gravità, sulla navicella russa gli astronauti non dovevano far altro che aspettare di vedere volare il pupazzetto che l’ex Rka e l’attuale Roscosmos chiedeva all’equipaggio di portarsi a bordo. Il tempo ci ha raccontato come rispetto allo Shuttle a stelle e strisce il Sojuz si sia rivelato non solo più economico, ma di gran lunga più affidabile e duraturo. Non è un caso se la 124 russa fu denudata da ogni apparecchio elettronico e dotata del carburatore che rese le riparazioni più semplici.

I russi restarono a Torino per 6 mesi, lavorando negli uffici Fiat in Piazza San Carlo, seguendo ogni fase della lavorazione della 124, la comunicazione fra i tecnici russi e quelli italiani venne agevolata da un dizionario tecnico Italiano – Russo con più di 25 mila parole, redatto per l’occasione.
I primi tecnici italiani arrivarono in Russia a luglio e furono accolti da un clima estivo che nelle giornate più calde arrivò a registrare anche 40°, la Russia non sembrava neanche lontanamente quello che avevano immaginato. Togliattigrad si trovava a circa 1000 chilometri in linea d’aria da Mosca, uno sbarramento del fiume Volga aveva creato un lago artificiale circondato da abeti e betulle, dove in luglio il circolo nautico organizzava la ‘Festa di Nettuno’.
La fabbrica non era ancora terminata, come non era terminata la città che avrebbe dovuto ospitarla: Novigon, ex Togliattigrad, costruita accanto al fiume Volga per non avere mai problemi di approvvigionamento energetico. Così nell’attesa gli operai e i tecnici si stabilirono nel campo pionieri 35 che non fu solo la loro casa, ma fu anche un esempio di una società basata sulla fabbrica e sulla coesistenza di due società così lontane, eppure, come al solito così simili.
Al campo si giocava a calcio, Italia – Urss era una sfida che si ripeteva con cadenza settimanale, si mangiava insieme, ci si confrontava sul lavoro del giorno, ci si innamorava e alle volte ci si sposava e si facevano figli; nel 1968 si registrarono 3mila matrimoni e in 5 anni il numero degli abitanti raddoppiò.
Una delle storie più affascinanti e tremendamente italiane che si raccontano sulla convivenza in fabbrica, riguarda, manco a dirlo, il cibo. Sì, perché come in ogni spedizione italiana, che sia per un mondiale di calcio o per andare a costruire una fabbrica in Urss, ci sono due cose che non possono mancare: il cuoco e l’assistente spirituale. Il cuoco italiano costretto a lavorare le materie prime russe si chiamava Giorgio, di Trieste, e divenne ben presto il beniamino degli operai, sia russi che italiani, ma soprattutto una figura chiave nella vita della collettività, sono passate alla storia le sue lezioni sulla lavorazione della pasta alle cuoche russe. Non mancava neanche l’assistente spirituale che, insieme a due maestre, mogli di alcuni tecnici torinesi, riuscì a mettere in piedi una scuola per i figli degli operai italiani.
Nonostante l’arrivo dell’inverno con i suoi 35 gradi sotto zero, la città prima e la fabbrica poi vennero completate, l’impianto copriva 5 milioni di metri quadri, produceva 2 mila vetture al giorno e ospitava 60mila lavoratori, una rappresentanza di tutte e 15 le repubbliche sovietiche, il 30% della manodopera erano donne e l’età media era di 26 anni, il che rese Novigon una delle città più giovani di tutta la Russia, nonostante i sovietici non brillassero in quanto a longevità. La particolarità della fabbrica era l’assoluta autonomia, nell’impianto entrava ghisa e usciva la vettura finita.
Il 20 aprile del 1970 le linee iniziarono ufficialmente a produrre le 124 sovietiche, con il nome di Lada Vaz 2101, la 124 base, e la Lada Vaz 2102, la 124 familiare, più conosciute come Zigulì, dal nome delle colline che circondavano lo stabilimento. Le Zigulì esaltarono l’automobilista russo a tal punto da restare in produzione per più di un decennio: la 2101 venne prodotta dal 1970 al 1988, mentre la 2102 dal 1971 al 1985.
Non fu che l’inizio, i russi ci presero la mano e nel 1972 uscì anche la 2103, una versione potenziata sempre basata sulla 124 questa volta versione spider, l’auto rimase in produzione fino al 1984, ma c’è chi giura di averla vista in circolazione fino alla fine degli anni Novanta. La produzione della Lada superò i confini russi e vennero aperti impianti in Egitto, la Lada Egypt, e Ucraina, negli ex stabilimenti ZAZ.
La Lada Vaz ha prodotto macchine fino al 2012, con la 27175 IzAvto, ossia la versione furgone della Lada Vaz 2104. Il 17 aprile del 2012 viene fermata la produzione della 2107 dopo un calo delle vendite del 76% rispetto all’anno precedente, dopo cinque mesi esatti, il 17 settembre, vengono fermate anche le produzioni della 2104 e della IZ 27175 e gli impianti verranno riconvertiti all’assemblaggio di modelli Renault e Nissan. La fabbrica che aveva superato la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento dell’Urss crollò di fronte al nuovo mercato che avanzava. Con la chiusura delle linee di produzione si è chiusa una storia lunga 50 anni, la storia di un tradimento all’italiana, di una convivenza singolare e costruttiva di due popoli, della nascita di un vocabolario tecnico russo italiano, di come una piccola auto italiana avesse fatto la fortuna dell’Urss in barba agli americani e al piano Marshall.
Edoardo Romagnoli