Una storia, corta o lunga che sia, una storia a settimana fino alla fine dell’anno. Una raccolta dal titolo cupo, ma che ben descrive certe scelte che ogni giorno, più o meno consapevolmente, prendiamo e le loro conseguenze, da cui spesso è difficile venire fuori indenni.
Felice, Ferrarista per una notte
Quando aprii gli occhi mi ritrovai a terra, guancia a guancia con il finto cotto di quel lurido appartamento, la corda ancora attaccata al collo e la televisione accesa che trasmetteva un’intervista di Maurizio Costanzo a Francesco Totti.
– Costanzo più invecchia e più assomiglia a Jabba the Hutt di Guerre Stellari – fu la prima cosa che pensai, poi nel goffo tentativo di rialzarmi scoprii che nella caduta mi ero slogato la caviglia destra.
Il dolore era troppo forte e decisi di rimandare il mio suicidio al giorno successivo. Mi tolsi la corda dal collo, rimisi a posto la sedia e cercai di riattaccare la lampada al soffitto prima di infilarmi sotto la doccia.
La mattina avevo ricevuto un invito a cena da un’amica d’infanzia con la quale ogni tanto ci divertivamo a sfogare vecchi istinti in qualche hotel del centro. Invito a cui non avevo ancora risposto e a cui credevo di non dover più rispondere, prima che cedesse quella lampada da quattro soldi comprata dalla mia ex.
Erano quasi le sette, ma decisi di provarci comunque. Le scrissi un sms, in barba a tutte quelle stramaledette app di messaggistica istantanea criptata dove ti fanno anche l’esame del colon. L’sms parte nel niente, come un piccione viaggiatore in cerca del destinatario.
Non mi dice se visualizzi, ma non rispondi o se non visualizzi pur essendo online, no lui porta il suo messaggio senza romperti i coglioni, senza chiederti niente in cambio.
“Alle 8 solito posto?”
“Sei in ritardo” – dopo neanche un minuto.
“Di quanto?”
“Di poco, ma che importa, sempre in ritardo sei.”
“Lo sai che non si mette il punto alla fine di un messaggio?”
“Perché?”
“Perché trasmettono la sensazione che tu voglia tagliar corto la comunicazione”
“Allora era perfetto. PUNTO”
“Sei arrabbiata?”
“Beh potevi degnarti di rispondermi”
“Ho avuto una pessima giornata”
“Tutti le abbiamo”
“Come posso farmi perdonare?”
“Alle 9 da me. Mi vieni a prendere con un macchina sportiva, mi porti a cena in un ristorante di lusso e mi porti a ballare”
Non seppi come risponderle, feci due calcoli degli ultimi soldi rimasti, mi dissi che poteva essere l’ultima grande chanche che mi sarei dato, un’inaspettata rinascita che mi avrebbe fatto tardare all’appuntamento che mi ero dato per il giorno dopo.
Affittai un Ferrari 458 DCT Speciale rossa come il sangue con una carta di credito che in caso di incidente non avrebbe coperto nemmeno il costo di uno specchietto, prenotai un tavolo all’unico stellato presente in zona e andai a prenderla.
Lo spettacolo che andò in scena fu perfetto nella sua finzione, a fine serata ci trovammo sudati in mezzo ad una pista affollatissima, dove più che ballare ci si strusciava l’un l’altro come maiali d’allevamento intensivo.
Sarà stata quella serata condita di un vento caldo d’inizio estate, sarà stato il rombo del motore o la sua leggerezza quasi infantile che spazzava via ogni problema, ma ebbi la netta sensazione di essere rinato. E così spinto dal momento, lasciai l’acceleratore, abbassai la musica della radio, la guardai negli occhi non perdendo di vista la strada e le dissi:
“Smettiamo di giocare, vieni a salvarmi”
Non ci pensò un secondo, non sembrò minimamente spiazzata, come certi cultori di gialli che per quanto puoi ingegnarti a confondere, capiranno sempre in anticipo chi è l’assassino.
Mi sbattè in faccia un sorriso e disse: “Ma tu sei matto! No grazie a me piace così, a piccoli sorsi” disse con tutta la superficialità che custodiva in corpo.
Ero un cioccolatino, anzi ero la ciliegia alcolica dentro il cioccolatino, il vizietto da concedersi ogni tanto per non rischiare la canonizzazione. Spinsi forte sull’acceleratore, scalai una per una tutte e sette le marce del cambio elettroidraulico a doppia frizione, la strada si stringeva metro dopo metro, iniziò ad urlare che non avevamo ancora superato i 180 chilometri all’ora.
Eravamo due anime spente su un motore V8 da 4497 cm cubici di cilindrata con 605 cavalli che puntavano ai 300 chilometri all’ora su una declassata di provincia.
Non saprei dire a che ora avvenne lo schianto, la notte sembrava spengersi, ma il turno del mattino non era ancora arrivato, poi quella curva e il volo, quando atterrammo eravamo già carne e lamiere.