Il presagio
Siamo in quota a dieci mila metri in qualche porzione di cielo sopra l’Afghanistan, sullo schermo davanti ho il fermo immagine di una hostess bionda dell’Aeroflot con tanto di spilletta, a forma di falce e martello alate, appuntata sul bavero della giacca. Sanjeev mi siede accanto da cinque ore, ma ha deciso di rompere il silenzio solo ora approfittando di uno dei miei pochi momenti di veglia.

- Sei russo?
Sorseggia del succo al pomodoro. E’ vestito di tutto punto con orologio di marca e 30 ml di gelatina in testa. Un vero gentleman, vi dico solo che non abbiamo neanche fatto a spinte con i gomiti per il bracciolo e questo dovrebbe bastare per rendere l’idea.
- No sono italiano
Qui, di solito, si apre un ampio ventaglio di possibili risposte, si va dalla città sorteggiata a caso fra Milano, Roma, Venezia, Napoli e Firenze al quartetto difensivo senza tempo dell’Italia che prevede Baresi, Maldini, Cannavaro e Buffon. Con la variante politica che solitamente coincide o con il presidente del Consiglio in carica in quel momento o con Berlusconi; seguito da un cenno di intesa.
Lui si è limitato ad un più semplice:
- Ahh Italia – stop
- Torni a casa? – gli chiedo
- Sì, vado a trovare i miei – ribatte
- Da dove vieni?
- Amsterdam, Olanda
- Sì, sì la conosco – e ammicco, è dal liceo che ammicco quando sento dire Amsterdam
- Lavoro lì da cinque anni – mi ignora – e mi trovo benissimo. Fosse per me non tornerei mai, ma sai i miei genitori ci tengono
- Lo so, lo so, le mamme sono quasi tutte uguali
- E tu? Che ci vai a fare in India?
- Vengo a vedere un po’
- E che vuoi vedere? Il traffico? – mi chiede affogando in una risata al pomodoro
Incredible India
Trattare l’India fingendo ce ne sia una sola è stupido, persino la Lonely Planet ha deciso di ‘spacchettare’ la sua guida in due parti: India del Sud e India del Nord, manco fosse la Corea
L’India è un puzzle disegnato sulla cartina, una sagoma affollata da più di un miliardo e 300 milioni di persone sparse in un territorio immenso che dalle vette dell’Himalaya si sdraia fino all’Oceano indiano; uno Stato laico dove si praticano 8 religioni e si parlano 179 lingue diverse.

Un fenomeno dalle proporzioni incredibili, difficile da sintetizzare senza distorsioni. Anche perché sembra che l’India non l’abbia mai capita nessuno, non solo i francesi, i portoghesi e gli inglesi che pure la conquistarono, ma nemmeno i suoi governanti e i suoi profeti; eppure in tanti si sono prodigati per raccontarcela e di questi molti ne hanno reso l’immagine eterea di una terra ricca di spiritualità e tolleranza. Un Paese esotico dove il tempo perde il suo senso dilatandosi a dismisura, lasciando lo spazio all’anima per elevarsi a uno stato superiore in cui si disgrega tutto l’impianto valoriale che domina in Occidente, aprendo una via nuova.
Lo hanno scritto, lo hanno raccontato e lo hanno fotografato, negli anni sempre più da vicino e facendolo hanno creato uno stereotipo dell’India da cui è difficile isolarsi tanto che, spesso, chi parte lo fa con una sequenza di immagini già in testa, un bagaglio mentale di cui non ci si può liberare. E questo forse spiega anche il motivo per cui in molti, una volta atterrati, si soffermano sempre sulle solite immagini: gli odori, i colori, le vacche sacre ferme agli incroci e i primi piani di splendide sofferenze. Le trovano familiari, coincidono con quelle che avevano già in testa, le riconoscono.
Perché spesso le sensazioni di un viaggio sono la differenza fra ciò che ci si aspettava e ciò che si è visto, al netto di tutti i retaggi culturali di cui non ci possiamo svestire.

Una realtà patinata
La strada che collega Amritsar a Dharamsala è un serpentone di 230 chilometri che dalle dolci pianure del Punjab si arrampica sinuoso per le salite dell’Himachal Pradesh. Chandan corre forte da quattro ore senza sosta, occhi sulla strada e mani strette sul volante, le stacca solo quando passiamo davanti ai templi. Chiude gli occhi, giunge le mani e mormora, poi riapre gli occhi e inchioda, anche se davanti non c’è nessuno tanto che a tratti ho pensato facesse parte del rito. Voliamo su una Suzuki bianca che qua nell’India del Nord sembra essere la macchina più in voga, in barba ai nazionalismi e alla Tata, a proteggerci sul cruscotto il dio Rama e Hanuman. Supera tutti, da destra o da sinistra non importa, schiva vacche sacre e umani profani senza alcuna distinzione, non frena quasi mai e quando è costretto a farlo gli si contrae il volto in una smorfia di disappunto. E’ chiaro che voglia essere il primo della strada, forse ciò che non sa è che ci condanna a un’eterna rincorsa. Mc Leod Ganji è un un piccolo paese nell’Himachal Pradesh a 1.750 metri sul livello del mare, sede del quattordicesimo Dalai Lama e meta di centinaia di monaci tibetani in fuga dalle repressioni dell’esercito cinese. Qui non sembra neanche India, poche macchine, poca gente per le strade e silenzio, uno strano silenzio che sorvola le case.

L’India sembra essersi tuffata di testa nella modernità senza aver digerito non solo la sua fase rurale, ma il suo Medioevo. Questo ha inevitabilmente provocato una scissione, un Paese che vive in tempi diversi: c’è un’India proiettata nel futuro e una immersa in un presente ancorato al passato, la sede di Google in uno dei quartieri di Delhi chiuso e vigilato dalle guardie armate e intere famiglie a sopravvivere sulle aiuole spartitraffico, le luci di Mumbai e i villaggi senza fogne; ma quando si parla dell’India si deve parlare di ciò che rimane fuori da certe enclavi di ricchezza e sviluppo, perché è lì che si trova la maggioranza degli indiani. E sono tanti!
Ciò che stupisce infatti non sono le dinamiche socioculturali che si osservano in India perché, nonostante la peculiarità della loro declinazione ‘esotica’, sono simili a ciò che succede in tante altre parti del mondo. Ciò che sorprende è la portata del fenomeno che quelle dinamiche amplia e distorce fino all’inverosimile. Facciamo due esempi:
- L’India è una confederazione di Stati e gli indiani sono tanti e diversi. Un indiano di Mc Leod Ganji non ha niente a che vedere con un indiano del Kerala, costumi, religioni e condizioni di vita differenti e spesso non parlano neanche la stessa lingua
Vero, ma niente di nuovo, generalmente è ciò che succede quando un popolo si distribuisce lungo un territorio morfologicamente variegato. In Italia, seppur con modi e in scala differenti, non è successa la stessa cosa? Solo che in India non ci sono 20 dialetti differenti, ma si parlano 179 lingue e una quantità indefinita di dialetti differenti tra di loro.

2. L’India soffre di un problema di distribuzione della ricchezza con un 10% della popolazione che detiene il 33% della ricchezza nazionale
Anche qui niente di nuovo, quello della distribuzione della ricchezza è un problema mondiale, ma quando si parla di povertà in India si parla di un esercito di milioni di poveri. Secondo alcune stime il 75% vive con meno di due dollari al giorno e il 27% nella miseria più assoluta; in pratica il 33% dei poveri del mondo vivono qui. In un Paese dove la distribuzione della ricchezza è così fortemente squilibrata, l’avvento della società moderna non è una manna dal cielo, ma l’ennesima condanna che scava un fossato sempre più profondo fra ricchi e poveri. Essere poveri in una società rurale permette ancora di vivere un’esistenza dignitosa, con una casa, un piccolo orto, una comunità vicina che si aiuta vicendevolmente. Essere poveri nelle moderne metropoli vuol dire dormire nelle aiuole spartitraffico, in una baracca improvvisata di legno e plastica, ritrovandosi a mendicare qualche rupia da una società in cui si è destinati a vivere sempre più ai margini. Ecco perché è alienante leggere un certo tipo di narrazione.

“A colpirmi, come fotografo, sono gli estremi e sopratutto le persone che vivono in povertà, in villaggi fermi alla metà del secolo scorso” (Steve McCurry)
Davvero cosa andiamo a vedere quando andiamo in India? Il nostro ieri proiettato nel presente in una veste esotica? Cosa c’è di bello nei villaggi fermi alla metà del secolo scorso, soprattutto quando non si tratta di una scelta volontaria, di un’autodeterminazione, ma di una condanna da cui gli indiani si affrancherebbero volentieri. Parliamoci chiaro: non c’è niente di poetico nella fame, niente di romantico nella miseria. Davvero ci affascina questo grande spettacolo offerto dalla povertà, davvero scambiamo la naturale capacità di adattamento dell’uomo per un modello alternativo di società? Dovremmo guardare alla mancanza di fogne, al sovrappopolamento delle baraccopoli, alla carenza di igiene come strada alternativa alla violenza consumistica che domina l’Occidente?
Il tentativo di rendere patinata questa realtà rischia di creare una massa di backpackers che girano il subcontinente intenti a catturare, nell’obiettivo della loro ultima Canon, qualche frame di questo cinema della miseria.

Breve storia del Taj Mahal
Mumtaz Mahal era la terza moglie del moghul Shah Jahan, ma divenne ben presto la sua favorita. Morì di parto nel 1631, a soli 38 anni, a Bhuranpur nel Deccan dopo aver dato alla luce il quattordicesimo figlio, ma in punto di morte chiese al marito di costruire un monumento come simbolo del loro amore.
Il moghul, dopo un anno passato in assoluta solitudine, decise di iniziare i lavori di quella che doveva essere la più mirabile opera mai stata eretta.
I materiali più pregiati furono portati da tutto il mondo: il marmo da Makrana, il diaspro dal Punjab, la giada dalla Cina, i turchesi del Tibet, i lapislazzuli dall’Afghanistan, gli zaffiri dallo Sri Lanka e la corniola dall’Arabia. La storia ci racconta che per il trasporto dei materiali ci vollero oltre mille tra elefanti e bufali.
La leggenda narra che per paura che qualcuno potesse replicare tale magnificenza il moghul fece tagliare le mani agli artisti che vi lavorarono, mentre l’architetto Ustad Ahmad Lahauri venne decapitato.
L’opera, nel suo progetto originale, sarebbe stata ancora più grande se il figlio del moghul preoccupato per l’enorme sperpero di denaro, circa 32 milioni di rupie, non avesse deposto e imprigionato il padre.
Il premio nobel per la letteratura Rabindranath Tagore lo definì come “Una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo”.
Qui lavorò anche Geronimo Veroneo, artista italiano, che prestò il suo genio per quella che sarebbe diventata una delle nuove sette meraviglie del mondo.

Ebbri di Dio
Un altro punto interessante dell’India romantica di cui spesso si legge è la religione, in particolare questa presunta tolleranza religiosa.
“Il mio amore per l’India nasce dal fatto che nel subcontinente convivono religioni diverse, la cultura è antica e al tempo stesso distinta dai paesi limitrofi” (Steve McCurry)

Le due principali religioni dell’India: islam e induismo, sono agli antipodi. L’Islam prevede un solo Dio, Allah, e il suo unico profeta, Maometto. L’induismo ha un pantheon che arriva a contare 33 milioni di divinità, non ha un profeta, dogmi o liturgie. I musulmani pregano in moschea, nella direzione della Mecca, “in coro salmodiano i versetti del Corano”. Gli induisti pregano soli. Sarebbe bello raccontare la storia di una pacifica convivenza religiosa, ma in realtà indù, sikh e musulmani si ammazzano fra di loro dalla notte dei tempi. Mohandas Karamchand Gandhi, la grande anima dell’India, morì a Delhi dove si era recato con l’intenzione di interrompere proprio le carneficine in atto fra musulmani, indù e sikh.
- “Chi è stato? Un musulmano o un indù?”

Chiese l’ultimo viceré delle Indie, Louis Mountbatten, quando lo informarono della morte di Gandhi. Era uno dei pochi conoscitori delle dinamiche indiane e sapeva bene che nel caso in cui l’assassino fosse stato musulmano si sarebbe scatenata una guerra civile. La radio attese quarantacinque minuti prima di dare la notizia:
“Il Mahatma Gandhi è stato assassinato a Nuova Delhi questo pomeriggio alle diciassette e diciassette. L’uomo che l’ha ucciso è un indù”
Oppure Indira Gandhi, uccisa dalle sue guardie del corpo sikh, per vendicare i morti dell’operazione Blue Star. Ignorare questi fatti significa avere una visione romanzata e parziale dell’India e della sua Storia.
Le vacche sacre
“In sostanza si tratta di un enorme sottoproletariato agricolo, bloccato da secoli nelle sue istituzioni dalla dominazione straniera: il che ha fatto sì che quelle sue istituzioni si conservassero e, nel tempo stesso, per colpa di una conservazione così coatta e innaturale, degenerassero” (P.P. Pasolini)
Siamo colpiti da questo teatro a cielo aperto dove camminiamo fra i cavi dell’alta tensione e se c’è una cosa che ci piace sopra tutte le altre sono le vacche, le vacche sacre e i loro santi escrementi.
Si dice che la vacca simboleggi gli dei. Le sue mammelle rappresenterebbero i quattro obiettivi della vita: la salvezza, la giustizia, il desiderio e la ricchezza materiale. Le sue quattro zampe le sacre scritture indù, mentre le sue corna gli dei in persona. Sarebbero diventate intoccabili con l’ascesa del jainismo e del buddismo in India, poi nel primo secolo d.C. furono associate ai bramini, la casta più alta nella gerarchia sociale indiana, e da allora gli indù hanno smesso di mangiarne carne.

Nel tempo però non sono riusciti a calare nella modernità riti e usanze arcaiche trovandosi, ad esempio, nel 2019 con milioni di mucche che paralizzano strade, autostrade e città. I numeri, ancora una volta, rendono bene l’idea di questa invasione ruminante: il 28% della popolazione bovina mondiale è in India, il rapporto è 5 mucche ogni indiano. Tante di quelle che sono in giro sono state abbandonate dai propri allevatori, generalmente perché troppo vecchie, improduttive o in sovrannumero.
La religione è sempre stata un potente tranquillante spesso usato per mantenere lo status quo con una promessa futura mai verificabile. II regno dei cieli non è forse il corrispettivo nostrano al paradiso del Brahman? La filosofia alla base non è forse la stessa? Sì lo so hai una vita di merda, ma se fai il bravo e stai calmo potrai accedere al paradiso e se non ti sarà possibile potrai comunque sperare di reincarnarti in qualcosa di migliore, un Purgatorio di passaggio. Temo che in questo apparente immobilismo, in questa attesa messianica si trovi una delle cause dell’arretratezza placidamente caotica che domina l’India.
“Convinto che le cattive condizioni igieniche fossero all’origine dell’alto tasso di mortalità dell’India, lottava da anni contro la radicata abitudine di sputare per terra (…) Se noi indiani sputassimo tutti insieme – disse una volta – potremmo fare un lago profondo abbastanza per annegarvi trecentomila inglesi” (Stanotte la libertà, L. Collins, D. Lapierre)
All’epoca di Gandhi la popolazione indiana contava ‘solo’ quattrocento milioni di persone, oggi a più di 70 anni di distanza i problemi sono gli stessi, solo con un miliardo di abitanti in più.

L’India e le previsioni del tempo
Le cascate di Bhagsu sono uno scivolo di plastica dove l’acqua è un dettaglio, lungo la strada che porta alla foce ci sono decine di baracchini che vendono da mangiare e tutto intorno non si contano le cartacce. Se ci si ferma un attimo lì davanti è possibile ricostruirne velocemente il tragitto. Si fermano in tanti, c’è chi prende un kulfi da scartare, c’è chi preferisce un nankhatai custodito dentro una pagina di giornale, in qualunque caso non fanno in tempo a pagare che la carta è già finita in terra. Più che un usa e getta è un prendi e getta perchè l’involucro ha un tempo di utilizzo quasi nullo. Mando una foto a un amico, mi risponde: “Roma 2021”.
Mondi possibili. C’è stato un momento in cui la bandiera indiana avrebbe potuto avere al centro un arcolaio, a proporlo era stato Gandhi che in quello strumento arcaico non vedeva solo l’affrancamento dal dominio inglese, ma la visione futura di un intero Paese. Un’India costruita su villaggi integrati nella natura più che sulle moderne megalopoli di cemento, in sintonia con tutti gli essere viventi, nessuno escluso. Un percorso dei piccoli passi.
Bandiera indiana
Oggi al centro della bandiera indiana spicca la ruota del Dharma, simbolo dell’unità del Paese, l’India è uno dei Paesi più inquinati al mondo e tutti gli auspici del Mahatma sono rimasti sospesi nell’aria.
“Dovremmo sentire un legame più profondo fra noi e il resto degli esseri viventi. I sistemi sociali futuri terranno conto non solo della famiglia umana ma di tutte le forme di vita” (M.K. Gandhi)
Siamo sulla strada che da Jaipur ci riporta a Delhi. Abu non supera gli 80 chilometri all’ora, ingurgita caramelle al caffè una dopo l’altra, lasciando che l’involucro di plastica venga risucchiato dal finestrino. Quando passiamo davanti a un tempio stacca le mani dal volante, le giunge davanti al naso, chiude gli occhi e prega, mormorando a bassa voce; devoto del dio Hanuman si ferma spesso per comprare delle pannocchie con cui sfama alcune delle scimmie che incontriamo lungo la via.
In treno, in autobus o in macchina, non c’è panorama che si affacci dal finestrino senza il suo contorno di rifiuti. L’adorazione verso gli animali non si è tradotta in un’adorazione verso la natura, eppure l’islam e l’induismo sono religioni molto green, ma evidentemente i processi culturali non possono essere sostituiti da dogmi religiosi che tutto mantengono e conservano senza prevedere ulteriori sviluppi.
Da questa parte del mondo appare chiaro che tutte le moderne velleità ambientali di 500 milioni di europei possono essere spazzate via in un secondo se gli indiani non riusciranno a collegare la devozione per gli dei teriomorfi alla salvaguardia dell’ambiente. Anche per questo l’India sarà centrale per il futuro di tutti.
Ma questo, in fondo, non è altro che l’ennesimo racconto sbagliato.
Certo, questo è davvero un viaggio. Si torna in qualche modo diversi, mi sembra…leggere, vedere film, conoscere indiani o meglio pachistani, non riesce credo a dare l’idea. Belli gli interventi, aggiungono sensazioni e conoscenze a quello che ognuno si raffigura dell’India. L’ho fatto in due tempi, non è così lungo come dicevi su instagram….alla prossima .E continua!
[…] indiano che è riuscito forse più di qualsiasi altro indiano a calarsi fra le mille pieghe di un Paese dai numeri impossibili. La storia di un uomo dalle mille contraddizioni con lati oscuri e discusso come solo i miti hanno […]